“Il Dominio del Fuoco”: YA mediocri e literary rape

Come scrivevo pochi giorni fa, quest’anno ho dribblato lo stress vacanziero volando dall’altra parte del mondo. Cosa che faccio un po’ tutti gli anni, a dir la verità. E come tutti gli anni mi sono rimpinzata il Kindle di materiale da leggere, sia mai che mi rimanga una mezz’ora senza storie.
Questa volta – l’ho anticipato qui –nei dieci giorni lontana da tutto mi sono dedicata a:
-“Il Dominio del Fuoco” di Sabaa Tahir
-“Kafra il Magnifico” di Mala Spina
-la trilogia dei Lungavista di Robin Hobb.
Sono in ordine di lettura e, bizzarramente, anche in scala di valutazione crescente (gli ultimi due però sono abbastanza vicini).
Inevitabile, quindi, assecondare la sequenza anche per i miei pareri non richiesti: partiamo con “Il Dominio del Fuoco”. Il riassuntino qui sotto è vagamente spoileroso ma poco; comunque c’è abbastanza poco da spoilerare, fidatevi.

TahirC’è un Impero Cattivo che ha schiacciato un tot di popolazioni, tra cui i Dotti (Lacrimali, visto quanto sono delle piaghe). Un’antica profezia narra che, all’estinguersi dell’attuale linea di imperatori, il nuovo regnante emergerà dall’Accademia di Rupenera, dove vengono addestrate le Maschere, dei Ninja Cattivissimi al servizio dell’Impero che vanno in giro a fare le peggio zozzerie con una – appunto – maschera argentata saldata sulla faccia, simbolo del loro essere delle merde senza scrupoli.
Ovviamente c’è una Resistenza che combatte tutto questo.
Laia è una Dotta figlia di pezzi grossi della Resistenza morti da anni che si vede rapire il fratello da una Maschera; si rivolge quindi ai ribelli per salvarlo e viene mandata a fare l’infiltrata nell’Accademia.
Qui incontrerà Elias, figlio della capissima dell’Accademia cui sta parecchio sulle palle, che è un apprendista Maschera ma in realtà è buono e vuole disertare. Laia ed Elias si trovano e fanno di tutto per scappare dall’Accademia mentre il resto del mondo cerca di prenderli a calci in culo (e, purtroppo, non ci riesce).

Ecco la trama a grandi linee. Non che ci sia molto altro da dire, perché si tratta del primo capitolo di una dualogia che termina con “Bene, e adesso andiamo a salvare tuo fratello”. In pratica finisce com’era iniziato.
Tutta la storia, comunque, è una bieca scusa per nascondere un doppio triangolo amoroso: Laia vuole farsi disperatamente sia Keenan (un membro – *inserire risatina maliziosa* – della Resistenza che fa il piacione) che Elias, che, a sua volta, non sa se preferisce dare due botte a Laia o a Helene, sua compagna di corso e unica donna dell’Accademia. Già questo è bastato a farmi roteare gli occhi, ma ehi, poteva anche andarmi bene: sono tutti fichi, mi sarei gustata volentieri un po’ di sano sesso scritto bene.
E invece no, perché il massimo cui si arriva è il limone.

I personaggi – PoV, Laia ed Elias, sono genericamente una piaga. Laia soprattutto è l’archetipo della protagonista che mi fa scendere il latte alle ginocchia: la povera, dolce orfanella inconsapevole di essere una figa spaziale che subisce di tutto senza abbattersi o fare domande, che non ha una vera qualità a parte essere figa ma che di punto in bianco (e parliamo letteralmente di roba che accade in una pagina e mezza nell’ultimo capitolo) tira fuori una capacità tattica e una freddezza che Rambo è lì che vuole chiederle l’autografo. Viene aiutata, certo, ma non basta a giustificare il passaggio da schiava infiltrata (ma pur sempre incapace di fare qualcosa a parte farsi salvare, come vedremo dopo) a guerrigliera scafata.
Elias ha maggior potenziale ma è banale: è il figlio di Keris Veturia, la boss dell’Accademia nonché proprietaria di Laia, una stronza algida e senza sentimenti che lo odia e lo vorrebbe vedere morto. Lui, manco a dirlo, è in realtà bbbbbuono e detesta l’Accademia, vorrebbe disertare ma ha mille dubbi soprattutto relativi al fatto se bombarsi la mora (Laia) o la bionda (Helene).
Helene è con ogni probabilità l’unico personaggio davvero interessante della storia. È una delle migliori dell’Accademia (infatti la sua maschera è praticamente fusa sul suo viso), è coraggiosa, spietata ma al tempo stesso ha una sua grande profondità che non deriva solo dal volersi fare Elias (di cui è davvero innamorata, pur consapevole che questo sentimento sia solo un problema in più da affrontare) ma dalla consapevolezza di essere un ingranaggio in un meccanismo perverso. Se Elias è quello che vuole disertare e allontanarsi Helene (detta Hel, e questo ha soddisfatto la mythology geek che è in me) rimane ancorata al suo ruolo con gelida determinazione. Non un semplice strumento di quello che sarà il nuovo imperatore, però, ma un generale che ha conosciuto il dubbio e che potrebbe fornire un appiglio agli eroi. Sospetto morirà malissimo e mi dispiacerà molto.
Elias è ovviamente un demente che preferisce quella piaga sociale di Laia a una donna determinata (che mi sa che gli ricorda troppo sua madre) (Elias, hai bisogno di un terapista, io te lo dico).

Non è un gran libro, “Il Dominio del Fuoco”. Si potrebbe relegarlo senza troppe remore nello scaffale dei “Meh”, se non fosse per un dettaglio.
La violenza sessuale viene tirata fuori un numero inquietante di volte:
-una Maschera attacca la casa in cui Laia vive coi suoi nonni; ovviamente la protagonista sfugge per miracolo allo stupro;
-viene ripetuto più e più volte che i cadetti dell’Accademia violentano abitualmente le serve;
-uno studente nonché l’antagonista, Marcus, cerca di stuprare Laia – di nuovo;
-Elias finge di violentarla per risolvere una situazione ambigua.
Allora, chiariamoci. La violenza sessuale è una merda e usarla come plot device standard per “donna in difficoltà/donna che ha subito un trauma” è non solo abbastanza squallido ma pigro, sciatto, indice di scarsa fantasia. Nel caso della Tahir è anche un po’ goffo.
Il primo episodio di quasi-stupro non ha alcun senso: sei un cazzo di Ninjadiddio in missione abbastanza stealth e cosa ti metti a fare? Appoggiarlo alle ragazzine? Dopo una roba come vent’anni di addestramento è questo ciò che ti dice il cervello?
Idem per il vizietto degli studenti: lo stupro è un’abitudine ma è rimbrottato dalle autorità; stiamo parlando di un’ accademia militare che mira a forgiare assassini pronti a obbedire agli ordini più spietati, macchine da guerra votate all’obbedienza e al massacro… e li lasciano abusare della servitù?
(Nota a margine: questo è un grosso problema di coerenza che ho riscontrato nell’intera caratterizzazione di Roccanera: tutti sono malvagissimi e la sorveglianza è strettissima epperò ogni venti minuti qualcuno evade/fugge/diserta/passa informazioni ai ribelli. Nope)
Infine il secondo stupro ai danni di Laia è un nauseante artefatto che vuole dimostrare quanto Marcus sia malvagio e invece Elias coraggioso. Ma anche no, ci sono mille altri modi per caratterizzare un antagonista e la violenza sessuale ormai in questo libro è diventata noiosa per il lettore e urticante a livello di ragionamento su ciò che implica.

“Il Dominio del Fuoco” è uno YA e, pur non essendo io un’esperta, i libri appartenenti a questo genere che ho letto fanno spesso ricorso al “literary rape” come escamotage per far vedere che qualcuno è cattivo o per giustificare un trauma.
Parliamoci chiaro, da lettori e autori (lo specifico perché non vorrei mai che qualcuno pensasse si tratti di un discorso applicabile alla realtà perché NO): in alcuni casi la violenza sessuale è funzionale alla trama. Lisbeth Salander non sarebbe lo stesso personaggio se non avesse patito tutto ciò che le è successo. In un contesto di guerra e conquista, allo stesso modo, non troverei fuori luogo l’accenno allo stupro dei prigionieri. Succede, è reale in quel contesto tanto quanto l’uso di proiettili o il sangue o la morte.
In troppi altri casi, però, “stupro” è sinonimo di “violenza ai danni di una donna”. Potrebbe facilmente essere sostituito da qualsiasi altra forma di brutalità e invece no, si sceglie di optare per la via banale e, francamente, sessista. Laia, all’inizio del romanzo, si vede ammazzare davanti i nonni, l’unica famiglia che le rimanga, e massacrare di botte e rapire l’adorato fratello: sarebbe più che sufficiente a giustificarne la rabbia, la paura e il trauma. Lo stesso dicasi per tutte le altre situazioni analoghe nel corso della storia.
Sta diventando un cliché, un orrido, sgradevole, stantio luogo comune: se è una donna la violenti, se è un uomo lo prendi a mazzate. La violenza sessuale nei confronti di personaggi di sesso maschile è una rarità (ammetto che, senza frugare troppo nella memoria, l’unico a venirmi in mente è Jamie Fraser in Outlander, e comunque non si tratta di YA). Non si tratta più di realismo ma di rimanere aggrappati a stereotipi vecchi, quasi medievali. La caratterizzazione di un personaggio attraverso lo shock post-traumatico da stupro inizia a darmi sui nervi: è gratuito. Noioso. Vecchio.
Vuoi creare un personaggio con trascorsi zuppi di angst? Ben venga, lo adorerò! Ma è davvero, davvero necessario farlo attraverso la reiterazione dello schema “Povera Vittima Violata con eventuale Salvatore Che Le Restituisce Fiducia e Amore”?
Sto dicendo di non scrivere di violenza sessuale? Santo cielo, no. Si può fare con criterio, con delicatezza o brutalità, ma ciò che conta è che sia davvero importante per lo sviluppo della storia. Se lo stesso risultato può essere ottenuto in altri modi o se la stessa situazione non si realizzerebbe in presenza di un personaggio maschile allora no, non mi va bene. Non più. È un errore in cui sono incappata anche io come autrice e che in passato non ho notato come lettrice, ma ormai non riesco più a sorvolare.
La puzza di condanna quando una donna non è più “pura”, il considerarlo il peggior oltraggio che possa essere ricevuto mi sono indigesti.
Consapevolezza, gente. Ecco cosa ci vuole.

Dopo questo lungo excursus, comunque, concludo tornando al romanzo. “Il Dominio del Fuoco” è un libriccino mediocre, poco originale e (mi autocito) una specie di Divergent ambientato tra Agrabah e Menzoberranzan. Non so nemmeno se ne leggerò il seguito perché, a parte Helen, personalmente non mi dispiacerebbe veder morire tutti i personaggi in un unico grande rogo.

Però ha un pregio: mi ha fatta riflettere, anche se sospetto non fosse nelle intenzioni dell’autrice spingermi in questa direzione.
Sabba Tahir non scrive malaccio, è scorrevole (fin troppo visto quanto poco rimane), ma ecco, vorrei tanto che qualcuno le facesse presenti queste problematiche.

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