Lettera a un apprendista scrittore (come me)

desperateaboutbillsCaro apprendista scrittore, sono come te. Ricordatelo molto bene perché sostanzialmente io sono una Signora Nessuno come tante ce ne sono al mondo, solo con qualche anno di esperienza, livore e rosicamenti sulle spalle.
Ho iniziato a scrivere che avevo diciott’anni e a sguazzare nel torbido mondo dell’editoria un paio d’anni dopo, facendo principalmente un gran casino prima di raccapezzarmi e mettermi a fare le cose a modo. E vuoi sapere, caro apprendista scrittore, cosa intendo per “a modo”?
Senza prendersi sul serio. Che sennò non se ne esce più.
Come forse avrai letto se bazzichi per queste pagine, caro apprendista scrittore, ultimamente sto partecipando a IoScrittore – sai, torneoneONE in cui ci si valuta a vicenda e si vincono ricchi premi e cotillon – e diciamo che ecco, ho passato la prima fase. Mica me lo aspettavo, sai? Col genere che scrivo io di solito arrivano pomodori e cavoli fradici, non certo i reggiseni lanciati da fan sdilinquite. Il che è un peccato, perché avrei giusto bisogno di sistemare il mio cassetto dell’intimo, che piange miseria.
E niente, dicevo, ho passato questa prima fase con tanti commenti entusiasti che mi hanno regalato un paio di cm di altezza in autostima, portandomi quasi nella media nazionale, e la possibilità di gironzolare ancora un po’ nel mondo che circonda questo torneo. Che, manco a dirlo, è uno spaccato abbastanza fedele di quella che è la fauna scrittoria italiana: quindi partiamo dal particolare e inoltriamoci pure nel generale, tanto il discorso che sto per farti vale per tutti.
Vedi, caro scrittore in erba, spero non ti offenderai. Quello che sto per dire non è assolutamente rivolto a te. Figuriamoci. Tu sei la fulgida eccezione che conferma la regola. Che te lo dico a fare?
Però ecco, questa fauna non è mica tanto bella.
Siccome i partecipanti a IoScrittore sono quasi quattromila e i selezionati giusto trecento, è ragionevole affermare che ci siano circa tremilaesettecento esclusi.
Questi numerosi insoddisfatti reagiscono in svariati luoghi del web – principalmente sul blog del torneo stesso – nel peggiore dei modi.
Il recensore negativo è un incompetente, un infame, un malizioso che mira solo ad affossare il Grande Talento (e cerca di capirmi, caro apprendista scrittore: Grande Talento una beneamata minchia, perché nella quasi totalità dei casi si tratta di libridimerda), un automa schiavo del sistema, del gregge di ignoranti che non colgono la Suprema Poesia Dell’Artista.
Ecco, no.
Se su dieci persone ben dieci ti dicono che quella tal cosa non va bene non è che non hanno capito, è che tu – non tu tu, caro apprendista scrittore, figurati – scrivi col culo. Punto.
E fidati, fidati di me, non è la fine del mondo. Scrivere è bello, io stessa ho una dipendenza dalle storie che mi porta a macinare libri e pagine a un ritmo poco decoroso. Però c’è di meglio nella vita. C’è altro. Essere uno scrittore non ti rende migliore degli altri, non più del vicino di casa che strimpella Battisti su una chitarra scordata o che si improvvisa sassofonista.
No, ok, forse un po’ meglio del sassofonista sì. Almeno non scassi il cazzo al pross-ah, no! Scherzavo! Perché quando sei scrittore mica devi esserlo per te, che sennò che gusto ci sarebbe? Siilo per gli altri! Sbandiera tutto il tuo processo creativo! Rompi i cabbasisi all’internèt tutta per dimostrare che ehi, tu sei Oltre, c’hai la sensibilità.
E mentre lo fai, mi raccomando, premurati di non imparare il buon senso, l’umiltà e l’autoironia.
Perché vedi, caro apprendista scrittore, accettare le critiche è così cheap.
(Nell’improbabile caso che tu non sia dotato di suddetta autoironia specifico: sì, sono ironica)
Dai, torniamo seri un istante, ti va, caro apprendista scrittore?
Ho visto reazioni scomposte a giudizi perfettamente legittimi. Che poi ogni giudizio lo è: è diritto di tutti dire “la tal opera mi ha fatto sonoramente schifo”.
Anche così, senza giustificazioni che non ti sono dovute, è un’opinione lecita. Hai scritto qualcosa, l’hai dato in pasto a un lettore, a questo lettore semplicemente non è piaciuta. Fine.
Non è che se ne muore. Se ti vengono dati consigli puoi farne tesoro o anche no, non te lo dice certo il medico e non fa mai bene essere spugne che assorbono tutto ciò che il prossimo dice. Ma se questo prossimo ti fa notare un’incongruenza non è lui a essere stronzo, sei tu che hai scritto, come dicevo prima, col culo.
E lo ammetto, faccio candidamente coming out: mi sono un po’ stancata di questa menosità, dell’intoccabilità dell’Artista di stocazzo. Mi sono stancata di leggere recensioni negative su Amazon che a un sacrosanto “non mi è piaciuto, mi ha annoiato” si vedono rispondere da stuoli di prefiche inorridite che minacciano calamità e rappresaglia e CuginiDellaPostale e “la recensione è falsah! SEISOLOINVIDIOSA!”.
No. Mo’bbasta. Avete rotto tre quarti di minchia. Voi, suffragette della recensione positiva a tutti i costi, e ancor più voi, autoruncoli supponenti che sguinzagliate più o meno consapevolmente – propendo per il più – il vostro esercito della salvezza.
Ti do un consiglio, caro apprendista scrittore: quando ti dicono che la tua storia è brutta forse hanno ragione. Non necessariamente, ma forse davvero c’è qualcosa che non va. Chiaro, se il commento è un “Ahahah chemmerda muori male autore puzzone” è lecito che ti venga il dubbio si tratti di un troll, ma di fronte a pareri – pareri, bada bene, non verità pretenziose – anche ben argomentati fatti due domande, datti due risposte e beviti qualcosa in compagnia degli amici, perché per quanto scrivere sia bello ci sono cose più importanti.

Scrivi e divertiti, goditela perché è una figata quella sensazione di creare mondi e inventare storie. Però, per cortesia, fattela una risata. Giuro che si vive meglio e non si passa per mentecatti.

(E documentati, per dio. DOCUMENTATI perché se leggo un’altra volta di gente che scrive di roba che non sa senza aver approfondito il genere giuro che spacco qualcosa)

“The Shannara Chronicles” è la morte (per noia e imbarazzo)

the-shannara-chronicles-posterCome non nascondevo fin dagli albori del blog, non ho gusti raffinati.
Inutile girarci attorno, a me piacciono le cose divertenti, le esplosioni, le pacchianate. Rendermi felice è molto più semplice di quanto possa sembrare, davvero.
Essendo consapevole di questa mia forma mentis da ottenne che gioca coi lego mi sono approcciata a Shannara (“The Shannara Chronicles” per esteso) fregandomi le mani: il trailer era una bomba, Manu Bennett un tamarro pazzesco e la storia abbastanza scema da permettermi di staccare il cervello durante la visione.
Breve flashback: nutro un certo disprezzo per Terry Brooks. È stato uno dei primi autori fantasy che ho letto, giusto dopo Tolkien, ai tempi in cui mi gasavo per oggettive schifezze come la saga di Drizzt o Dragonlance. Il fatto che persino all’epoca e alla luce della mia crassa ignoranza in ambito fantasy mi sia sembrato una ciofeca la dice lunga: “La spada di Shannara” è risaputamente la copia carbone di Tolkien, c’è la spada che ti prende a male parole e i personaggi idioti.

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Ho letto la mia dose di libri discutibili. E me li sono goduti. Ciò non toglie che fossero orribili.

Non sono andata molto avanti con l’esplorazione di Brooks; “Le pietre magiche di Shannara” è lì sullo scaffale, ne ho lette forse cento pagine e ho capito che non era cosa. Ho rimosso praticamente tutto ciò che riguarda il libro, sono passati tanti anni e quindi posso dire di essermi approcciata alla serie TV con relativa oggettività. Quel tipo di oggettività che ti fa dire “ok, l’autore è un mentecatto ma potrebbe venir fuori qualcosa di carino”.
Ovviamente in tutto questo ho finito con l’ignorare l’enorme, luminoso warning che mi informava dell’imminente zozzeria che mi accingevo a guardare: MTV.
(Da quant’è che MTV non fa qualcosa di decente? Che va bene, io c’ho una certa età e i tempi di Daria e Celebrity Deathmatch sono lontani, ma ormai più che sedicenni gravide non vedo)

Con la mente fredda e una decina di giorni per elaborare il tutto posso affermarlo con certezza: Shannara è inguardabile.
Innanzitutto mi ha fatto lo stesso scherzone di quell’abominio del film di Dragonball. Trailer fico e bugiardo perché cuce insieme gli unici trenta secondi decenti dell’intera produzione. E già questo non lo posso perdonare.
Il cast è un immenso punto di domanda. Tralasciando Manu Bennett (su cui ho da dire) e John Rhys-Davies (che ho confuso per anni con Rhys-Meyers e no, non c’azzeccano), il resto dei numerosi attori sono stati scelti solo sulla base della manzitudine. Bellini, eh, tutti tra il caruccio e il “ma che fregna!”, però fine.
Non ce n’è uno, UNO che sappia recitare. Potrebbero, poverini, essere reduci da una seduta di devitalizzazione dal dentista e avere ancora i postumi dell’anestesia da tanto sono inespressivi. In realtà si somigliano anche un po’ tutti, ma forse questa è colpa mia che a un certo punto ho smesso di stare attenta e ho preso a sbadigliare.
Dicevamo di Manu Bennett: a me lui non dispiace. A chi potrebbe mai dispiacere un culturista neozelandese che fa sempre ruoli da badass? Sarebbe un po’ come odiare Dwayne Johnson. Dai. E poi ha fatto Crixus in quel gioiellino di Spartacus (gioiellino monco ma ci torneremo) e Azog, che è una delle poche cose salvabili dei film dello Hobbit. Certo, non c’entra assolutamente niente con Allanon, che viene ripetutamente descritto come alto, allampanato, cupo e incazzato col mondo. Qui oltre a essere un barattolo di muscoli il druido è un po’ amicone di tutti, superdisponibile e se glielo chiedi con gentilezza ti porta pure fuori la spazzatura. Il che è molto triste, considerando che davvero, Allanon è l’unico dettaglio che mi sia rimasto impresso in maniera positiva della produzione di Terry Brooks.
Sono una fangirl pure troppo attenta agli hint, quindi confesso di aver provato un briciolo di interesse per lui giusto quando ciccia fuori di fianco a Will collassato nella vasca da bagno. Mi aspettavo cose tra i due, ma poi mi sono ricordata che non siamo in una serie tv divertente o trasgressiva ma su MTV, quindi niente.

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Confidavo almeno in un limone. Sono rimasta delusa pure in questo.

Shannara non è un fantasy: è un teen drama spennellato di polvere di fata. Si capisce benissimo fin dall’inizio che l’interesse degli sceneggiatori non è mai stato quello di fare un prodotto che rinfocolasse l’interesse per il fantasy risorto con Game of Thrones. Piuttosto hanno messo in una stanza un gruppo di sociologi cinquantenni e gli hanno chiesto cosa piaccia ai regazzini.
Il risultato? Un tragicomico mix tra Hunger Games, Maze Runner e Bayside School. La scena iniziale – che nel libro è intrisa di misticismo, con l’albero che estende i propri rami a scegliere coloro che dovranno difenderlo – è una demenziale corsa bendati nel bosco con tanto di sgambetti e divise da runner. Ci stanno gli elfi in canotta che sono una delle cose più NO del mondo! E cinque minuti dopo c’è il ballo di fine anno pubblicità dello Jaegermeister bho, non ho capito, gli elfi vanno al baretto e sembra tanto il prom dell’high school, con la protagonista femminile tanto caruccia vestita da strappona in uno stile che non c’azzecca niente col resto del suo popolo.
La bruttezza della rappresentazione del popolo elfico si riflette perfettamente sulle espressioni “Ma chi me l’ha fatto fare” di re Eventine.

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“Regà, ma che siete seri? Cioè, davero?”

Sono questi i problemi della serie? Attori scarsi, costumi ridicoli e mood a cazzo di cane?
Ma magari!
Le prime due puntate, che oltre non vado perché devo fare cose più importanti tipo guardarmi i pori per sei ore di fila, sono palesemente state sceneggiate e montate da un branco di scimmie ubriache. Passaggi di scena fulminei e a singhiozzo che non riescono a defibrillare una lentezza nello svolgimento e una serie di dialoghi strazianti da tanto sono noiosi.
Eccolo, il vero, grande problema di Shannara: che due palle!
Non riesci a farmi affezionare ai personaggi, non riesci a farmi appassionare alla trama, ti limiti a un paio di scenografie carine e farcisci il resto di una CGI così brutta che fa rivalutare non dico neanche Hercules, ma addirittura Sinbad: caro showrunner, io te lo dico chiaramente che hai sbagliato mestiere.
Una serie tv può essere brutta ma lasciarsi guardare. Con tutto l’amore per Raimi, i suoi telefilm anni ’90 erano trash e spesso sconclusionati, ma erano deliziosi. Spartacus (diciamo le prime due stagioni, che poi mi si perde via) è girato in green screen da una mezza dozzina di omoni in mutande eppure è ben fatto.
Shannara no. È NOIOSO e io questo non posso perdonarlo. È noioso perché è sciatto, è noioso perché nessuno si è preoccupato di cucirgli addosso uno script degno di questo nome. Temo di sapere il perché: non si tratta di incapacità ma di scelte specifiche. La serie è stata pensata come prodotto per ragazzini e non vorrai mica propinare ai sedicenni qualcosa di troppo complicato, no? Quindi banalizzare, gettare esche a forma di estetica da distopico vecchio di cinque anni e aspettare che il target abbocchi attirato dai pettorali di Will o dal musetto caruccio di Amberlee.
Questo mi manda in bestia. Si può e si deve creare un prodotto per adolescenti fatto bene, anche se non è facile e occorre sbattersi. Ma pensa un po’ che strano, per far cose fighe bisogna impegnarsi! Non lo avrei mai detto!
In conclusione posso perdonare tantissime cose a una serie tv che parte con premesse non proprio incoraggianti, ma non la sciatteria e soprattutto non la noia. Ridatemi Legend of the Seeker, che era orrendo ma godibile!
O Shadowhunters (coming soon, tra l’altro), che è brutto da lacrime ma fa il giro e diventa divertente!
Ve ne prego!

Vikings e “The last kingdom”: qualcuno ne esce malconcio.

Premessa 1: La mia opinione su “L’ultimo re” di Bernard Cornwell è sicuramente falsata.

Premessa 2: la prenderò alla larga.

Un annetto e mezzo fa, ma facciamo pure due, il mio feed di facebook iniziava a essere invaso da manzi barbuti che mi erano ignoti. E io sui manzi barbuti ho una certa cultura di spicco, giuro, ma Vikings me l’ero perso.

                                                                                             Io Vikings lo guardo per la trama

Le mie amichette parlavano in toni estatici di questa nuova serie tv, Vikings appunto, e io continuavo imperterrita a ignorare l’argomento perché sono culopesa e le serie tv le recupero con anni di ritardo.

                                                      Giuro! Solo per la trama!

Vikings, comunque, alla fine me lo sono guardato e credo, in tutta onestà, che sia la serie che più mi ha appassionata. La fotografia è un capolavoro, le musiche sono spettacolari (a partire dalla sigla per culminare nei Wardruna, che fanno pure un cameo in una puntata), i personaggi sono complessi, affascinanti, ti fanno desiderare di scoprire cosa succederà dopo, quali siano gli sviluppi e i sogni e…

                                    Oh, allora! Ho detto che lo guardo per la trama!

No, ok. Belli i personaggi, eh, ma principalmente c’è una dose di manzitudine in entrambi i generi che basta a far surriscaldare il computer.

Ma comunque, questo non cambia le cose: ho iniziato a guardare Vikings, sono impazzita d’ammmore e adesso sono qui che fremo in attesa della prossima stagione.

                                                … ok, ok. Non ci crede nessuno.

Di cosa parla Vikings? (A parte i pettorali di Rollo, s’intende) (che, converrete con me, non hanno mai abbastanza spazio)
Delle avventure di Ragnar Lothbrok, condottiero vichingo, e della sua gente. Compresi svariati figli, di cui ne citerò un paio: Ubba e Ivar detto “Senz’ossa” in quanto nato con una malformazione alle gambe. Questo nella serie, eh: che ok, c’è una base storica ma moooolto vaga. I due marmocchi sono, appunto, marmocchi e per adesso tali sono rimasti.

Fine del preambolo.
Qualche settimana fa mi viene segnalata insistentemente una nuova serie tv, “The last kingdom”, tratta dalla serie di romanzi di Bernard Cornwell, “Le cronache dei sassoni”, che inizia con “L’ultimo re” e la sua orrenda copertina con polena-drago con problemi di esoftalmo.

Protagonista della serie è Uthred, un nobile sassone (figlio di Uthred e fratello di un altro Uthred di cui assume il nome-titolo alla sua morte) che, in seguito a un’incursione danese nelle terre di Bebbanburg, viene adottato da un condottiero vichingo che resta impressionato dal coraggio folle con cui il ragazzino cerca di ammazzarlo per vendicare il padre. Seguono circa trecento pagine di assedi, battaglie e infodump assortiti.
Come si chiama questo condottiero? Ragnar. E i due signori della guerra con cui si accompagna? Ubba e Ivar, detto il Disossato (come il pollo), fratelli e figli di un tal Lothbrok.
Già qui si capisce che, per chi come me abbia letto il libro dopo aver visto Vikings, le cose inizino a complicarsi. Appena mi sono resa conto che gli avvenimenti delle due opere si sarebbero almeno in parte sovrapposti (e infatti molti luoghi ricorrono in entrambi, come il monastero di Lindisfarme, oltre che moltissimi personaggi tra cui re Aelle) ho capito che non sarei mai stata in grado di valutare obiettivamente la trama.
Però ci voglio provare lo stesso, anche perché la trama è una delle pochissime cose per cui valga la pena leggere “L’ultimo re”.
Mi scusino i fan accaniti, che so essere molti, ma Cornwell scrive maluccio. È incostante, abilissimo nel descrivere battaglie e scene di guerra ma del tutto incapace di infondere informazioni nel testo senza ricorrere a pagine e pagine di straziante infodump. Questo è il problema peggiore e lo sto riscontrando anche in “The Winter King”: bisogna far sì che il lettore conosca un antefatto importante ai fini della trama? Perfetto! Perché non infilare un As you know Bob grande come una casa? Perché non far raccontare l’aneddoto in maniera scolastica dalla comparsa di passaggio, in un tono del tutto alieno rispetto al personaggio e in una situazione improbabile? Un po’ come se di punto in bianco mio nonno, tra una forchettata di risotto e l’altra, mi sciorinasse l’intera storia della Seconda Guerra Mondiale. Con tanto di date e luoghi, e premettendo “come tu ben sai”.
No.
Semplicemente no.
Purtroppo ai personaggi non va molto meglio di così. A parte tre personaggi di numero, il protagonista Uthred, il capo Ragnar e Brida, ragazzina sassone scampata a un massacro e adottata dai vichinghi, selvatica e brillante, tutti gli altri spariscono un po’ sullo sfondo. Voci tutte uguali, gente descritta come intelligente o crudele ma che non viene mai mostrata far molto che valga loro l’appellativo, una miriade di comparse che vanno e vengono senza lasciare traccia emotiva. Triste sorte che tocca anche a Brida (questa cosa l’ho presa sul personale perché Brida mi piace sul serio, anche se temo che l’autore si ricicli troppo spesso il tipo di personaggio, vedi Nimue): presentata come fondamentale, grande amica di Uthred e sua prima donna (anche se la scena in cui lei, appena tredicenne, abortisce il primo figlio riesce a essere quasi ridicola tanto è raffazzonata e subito dimenticata da tutti i coinvolti), a un certo punto puff, se ne va per una mezza dozzina di capitoli e quando torna non fa assolutamente nulla.
Utilità di questa scelta ai fini della trama: non pervenuta.
E allora perché sono andata avanti a leggerlo? Perché ho iniziato un altro romanzo di Cornwell se questo mi è risultato oggettivamente mediocre?
Perché mi sono divertita. Nonostante i mille difetti Cornwell conosce la storia e si è documentato, sa ricreare ambienti credibili e un clima profondamente medievale che mi attira. E poi un pochino voglio vedere se Uthred diventa un filo meno pirla di così.

Ci casco sempre, è inutile. Che sia un libro, che sia un film o una serie tv, se è in costume io non riesco a dire di no.
Per dire, ci sono cascata pure con la serie della BBC “The last kingdom”.

Allora, partiamo da un presupposto: il libro consta di un trecento pagine abbondanti – l’ho letto sul Kindle, non so quante fossero di preciso – ed è il primo di otto volumi che suppongo siano altrettanto cicciotti.
La prima puntata della serie, della durata di un’ora circa, copre integralmente gli avvenimenti del primo tomo.
Quando succede qualcosa di simile, decine e decine di capitoli ridotti a una misera oretta in video, i casi sono due:
-la storia originale sbrodola da tutte le parti e si è giustamente sfrondato il non necessario;
-la trasposizione è fatta col culo.
Questa volta, mirabile dictu, si sono verificate entrambe le eventualità contemporaneamente!
Il libro è effettivamente una sequela continua di gente che si mena a sangue, priva di particolari scossoni (non c’è la Battaglia Campale Definitiva Della Morte, un po’ tutte vengono affrontate con lo stesso spirito) e comprensibilmente tagliarle è servito ai fini della resa televisiva.
Peccato che tale resa sia eccitante come il semolino. Peccato perché le premesse c’erano tutte: Matthew McFayden nel ruolo di Uther senior, Rutger Auer in quello del vecchio cieco Ravn. Attoroni, pezzi grossi, prospettiva di più manzi!
E invece mi scelgono un protagonista sciapo e senza alcun carisma che riesce a rendermi per nulla appetibile persino la scena in cui compare per la prima volta adulto emergendo seminudo dall’acqua con gran swisssh di lunghi capelli neri.
No, non funziona. Mi spiace, non sei Rollo. Ma neanche da lontano.
Persino Brida, che è un personaggio potenzialmente incendiario su schermo, è ridotta a poco altro che interesse amoroso del protagonista, e pure un interesse abbastanza blando.
Un po’ come quello che è riuscita a scatenare in me.
Non penso continuerò a guardarla; mi aspettavo più pathos, interpretazioni più passionali e atmosfere più cupe. Mi aspettavo, colpevolmente, più Vikings.
Invece ho avuto un po’ l’impressione di essere in fila all’Esselunga.

In futuro forse riprenderò in mano “Le cronache dei sassoni”, non lo escludo; ma la serie mi ha lasciata meno che tiepida. Diciamo a temperatura ambiente.
Che peccato, davvero.

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