“Harry Potter and the Cursed Child”: no, non ne avevamo davvero bisogno.

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[ATTENZIONE SPOILER A MANETTA]

C’era una volta – tanto, tanto tempo fa – tanto, davvero – una Giovane Valpur circa diciassettenne. Questa Giovane Valpur, col suo cuoricino ancora tenerello e fatto di sugar&spice invece che di catrame, astio e ansia, nel riprendersi dalla prima, cocente delusione d’amore si dedica dapprima alla visione, quindi alla lettura delle vicende di questo maghetto che si chiama Harry Potter. Correva l’anno duemilaepochissimo e l’Ordine della Fenice non si era ancora affacciato alle librerie.
Sarebbe accaduto di lì a qualche mese e avrebbe segnato l’inizio di una tradizione breve ma intensa: aspettare l’avvento del nuovo capitolo della saga, chiudersi in camera al buio con solo una lucina e una scorta di dolci e divorare pagina dopo pagina – in un inglese all’epoca ancora un po’ zoppicante ma pieno di zelo e buone intenzioni – l’intero tomo prima del sorgere del sole.
Begli anni. La passione non cala e si incastra saldamente tra le fibre dell’essere della Sempre Meno Giovane Valpur, nonostante quel filino di delusione per l’epilogo molto meh.
Flashforward: 2015. O 2016, chi si ricorda. Comunque la Decisamente Non Poi Così Giovane Valpur apprende, insieme al resto del mondo, che ci sarà un’ottava storia ambientata nel Potterverse, “Harry Potter and the Cursed Child”. Protagonista la nuova generazione, quella pletora di marmocchi dai nomi che viaggiano tra l’imbarazzante e l’inquietante (“Ciao, ti chiami come il preside che mi ha manipolato per metà della mia vita e come secondo nome hai quello dello stalker di tua nonna morta MA TRANQUILLO TI VOGLIO BENE”) (Questo in effetti spiega parecchie cose che vedremo più avanti) figli di genitori illustri.
Non un libro, occhio: uno spettacolo teatrale che ha debuttato in quel della perfida Albione a inizio giugno 2016. In quei giorni su Twitter impazza l’hashtag #keepthesecret, ovvero un invito a chi avesse assistito alla premiere a non divulgarne la trama. L’internet risponde con una sonora pernacchia e iniziano a leakare informazioni.
Informazioni
deliranti.
Inquietanti.
Si parla di una figlia di Voldemort cugina di Cedric Diggory che è tipo un Mangiamorte.
Le grasse risate proprio: non poteva che essere una farsa, un modo bizzarro per depistare i curiosi. Figuriamoci, robaccia del genere manco nella peggiore delle fanfiction con le
Mary Sue Kattyve coi capelli di colori improbabili e il sangue di unicorno!
L’interesse dura il giusto; c’è chi ci crede, chi no, chi preferisce soffermarsi sulla scelta di un’attrice di colore per Hermione. Quest’ultimo sembra essere il problema principale, la maggior fonte di flame e litigate online. Posto che la qui presente ritiene che il problema non si ponga – teatro e cinema sono due media diversi e quindi sticazzi per il casting, se hanno scelto una tal attrice sarà ben la migliore per quel ruolo – e posto che la Rowling dovrebbe riflettere un paio di volte prima di rilasciare dichiarazioni online – capisco che il volemosebbene è cosa buona e giusta, ma definire sia Emma Watson che
Noma Dumezweni come “perfette per Hermione” mi fa sorgere qualche dubbio su una delle due – se ne sono lette davvero di ogni; razzismo spudorato o mascherato da purismo letterario, elucubrazioni sull’incarnato di Hermione brandendo il catalogo Pantone…
Oh, sweet summer children. Ma davvero pensavate che fosse QUESTO il problema reale di The Cursed Child?
Folli.
Giunge, nel mentre, la fine di luglio e con essa la release ufficiale dello script di “Harry Potter and the Cursed Child” sotto forma di libro. Hype per me non pervenuto: me ne fregava pochissimo, al punto da ricordarmene giusto allo sbarco a Gatwick vedendo le pile di libri in aeroporto.
“Ma sì”, mi sono detta. “Leggiamolo”.
Ora so. Ora capisco: quel disinteresse, quel dimenticarmi dell’esistenza stessa dell’opera era un tentativo del mio inconscio di proteggermi.

Perché, signore e signori, “Harry Potter and the Cursed Child” è una delle ciofeche più improbabili che io abbia mai letto. Sono davvero allibita da tanta bruttezza: se avessi avuto delle aspettative non so cosa sarebbe successo! No perché quelle voci, quelle informazioni ridicole erano vere.
Erano.
Tutte.
VERE.

Ora, immagino sia cosa nota la mia discreta esperienza in ambito di
fanfiction. Mi piacciono le fanfiction brutte, trash e demenziali. Ma innanzitutto sono gratuite, sono scritte per divertirsi e non c’è dietro un’autrice più ricca di Queen Lizzie che ci caccia questo scempio in mezzo al canon!

Ma andiamo con ordine.
Nell’approcciarsi a “Harry Potter and the Cursed Child” occorre tener presente che non è un romanzo ma uno script: niente descrizioni, solo dialoghi e poca introspezione. E meno male perché la poca che c’è fa venir voglia di percuotere i personaggi con una putrella di ghisa. Non sarà quindi della forma che mi lamenterò.
Il dramma è la sostanza: la trama è inconsistente e in costante contraddizione con i sette libri precedenti (con strafalcioni anche grossi che vedremo più avanti), i personaggi sono nella quasi totalità (una singola eccezione) simpatici come le emorroidi dopo un’indigestione di cibo messicano. I vecchi sono più OOC che IC, i nuovi sono insopportabili e campati per aria.

Il sipario si apre – è proprio il caso di dirlo – con la stessa scena che ci aveva salutati alla fine dei Doni della Morte: siamo al binario 9 ¾ e Albus si appresta a iniziare Hogwarts. Ansia da prestazione, non voglio finire a Serpeverde, vai tra figliolo che ti voglio bene lo stesso, e comunque lo stalker di nonna morta era Serpeverde. Sta’ sinz penzier.
A bordo dell’Espresso Albus (non chiamatelo Al che mi si incazza, oh) fa amicizia con l’unico personaggio che non ho desiderato schiaffeggiare con lo scopino del cesso per tutto il libro:
Scorpius Malfoy. Poraccio, con un nome del genere non poteva che saltar fuori un disagiato, e infatti Scorpius è un piccolo nerd sfigatissimo e scodinzolante che tutti odiano perché – rullo di tamburi – pronti al primo WTF del libro? – girano voci che sia figlio di Voldemort.
Let that sink in.
Figlio.
Di.
Voldemort.
Che si sa, Draco a quanto pare aveva la conta spermatica bassa e quindi Lucius ha mandato indietro nel tempo mamma Astoria per farla ingravidare da Voldemort.
No, questo almeno per fortuna non è vero, ma direi che si inizia a intuire il livello di WTFaggine del tutto.
Già in questa prima scena compare la mia nemesi, il mio odio incarnato: Rose Weasley (ah, facciam finta che sia figlia unica, che tanto Hugo non viene mai neanche nominato. Idem per James e Lily jr. che vengono citati di sfuggita ma in realtà sono dei cartonati). La figlia di Hermione – della coraggiosa, egualitaria e battagliera Hermione – se ne esce con “Albus, non puoi sederti con lui, è un Malfoy! Che schifo! Dovrebbe avere una fila di sedili per quelli come lui bleah!”.
Rose che è sostanzialmente un pregiudizio ambulante, che dà retta ai pettegolezzi e diventa una bulla non riesco ad accettarla. Per fortuna Albus e Scorpius diventano amici (e già da pagina tre io tifavo per il limone che non c’è stato) (La Rowling è stata vigliacca in più di un senso e ne parleremo dopo) e il Cappello li smista entrambi a Serpeverde.
Qui parte il dramma. Albus ha i complessi di inferiorità e quindi inizia a odiare suo padre. Che nel frattempo è regredito ai quindici anni urlanti e scleranti dell’Ordine della Fenice, perché nel corso della storia fa e dice cose ORRIBILI (tra cui ammettere che a volte vorrebbe che Albus non fosse figlio suo o gridare in faccia a Sua Maestà Minerva McGranitt “Che cazzo ne sai tu di figli che non ne hai mai avuti”. Io ero sconvolta).
Gli anni passano in fretta e non ci si sofferma troppo: spettacolo teatrale, tempi contingentati eccetera. No problem.
La trama prosegue con Albus e Harry che si odiano sempre di più, Ginny non pervenuta, Ron che ogni tanto salta in scena solo per ricordare che esiste e altro nonsense assortito. Mamma Astoria muore e la cosa viene smaltita in tre righe, e ok che è uno script e non un libro, però insomma, così è davvero squalliduccio.
Il trigger per l’intera vicenda è la comparsa del vecchio Amos Diggory e della sua badante-nipote
Delphini (no ma bel nome anche tu eh). Amos chiede a Harry di tornare indietro nel tempo con la Giratempo scoperta in possesso di Theodor Nott per salvare Cedric durante il Tre Maghi. Harry ha un guizzo di buon senso e gli dice che dev’essere la senilità a parlare, ma accusa il colpo. Albus nel mentre fa amicizia con l’ultraventenne Delphi e i suoi capelli argentati e blu. L’odore di fanfiction si fa sempre più intenso ma andiamo avanti.
Delphi si offre di aiutare i due pischelli – Albus e Scorpius, il fido sidekick – a recuperare suddetta Giratempo: devono solo fuggire dall’Espresso di Hogwarts e correre in ufficio da Hermione – Ministro, lo sappiamo – che custodisce l’ultima Giratempo.
E qui piovono
WTF come se non ci fosse un domani. Prima la strega del carrello dei dolci si scopre essere un mostro secolare messo lì per impedire agli studenti di scendere dal treno; pare che i Malandrini e Fred&George ci avessero provato… ma non ha senso. Suddetta strega infatti è una creatura mostruosa con tanto di artigli affilati pronta a scagliarsi contro gli studenti; buttata lì così dopo sette libri non regge, soprattutto perché Albus e Scorpius non mettono in atto chissà che stratagemma. Si limitano a saltar giù dal treno e ciaone. Si rimane lì così, un po’ appesi, di fronte a queste trovate troppo facilone, diciamo pure stupide.
Stupidità che troviamo anche – incredibile – in Hermione. Hai un manufatto che doveva essere stato distrutto e cosa fai? Lo nascondi. In ufficio. Lasciando in giro millemila indizi e sciarade per far sì che venga trovato. Sbaglio o non ha senso? Così come è ridicolo far saltare fuori della Polisucco (ricordiamo, una delle pozioni più lunghe e difficili da produrre, con potenzialmente effetti indesiderati gravissimi) dal taschino di Delphi per permettere ai due ragazzi di infiltrarsi al Ministero.
Long story short, Albus e Scorpius iniziano a fare avanti e indietro nel tempo per cercare di:
-salvare Cedric;
-no, cazzo, se lo salviamo non nasce Rose!
-però aspetta, se lo umiliamo per non farlo arrivare in fondo alla terza prova si prende male e diventa Mangiamorte;
-aspetta aspetta stiamo incasinando l’universo.
Sì perché questi due deficienti viaggiano nel tempo un numero improponibile di volte, visitando ogni volta un universo differente e terribile: c’è appunto quello in cui Rose non è nata perché Ron è rimasto con la Patil e Hermione è diventata una professoressa acidissima perché zitella, c’è quello in cui ha vinto Voldemort e tutto invece che essere creepy e spaventoso è imbarazzante.
La Rowling – o più probabilmente i suoi coautori – fa un casino pazzesco con i viaggi nel tempo. Sembra di essere in quella puntata dei Simpson in cui Homer sbaglia a riparare il tostapane.
Saltabeccando tra un passato diverso e un futuro alternativo salta fuori che Delphi, nell’ordine:
-non è nipote di Amos Diggory;
-adesca i minorenni (è super inquietante il suo atteggiamento verso Albus, giuro);
-fa dentro e fuori da Hogwarts senza che nessuno si ponga il problema di un’ultra ventenne sconosciuta in giro per i corridoi;
è figlia di Voldemort e Bellatrix (chiediamoci tutti “ma quando cazzo l’ha partorita?”), allevata da Rodolphus Lestrange (che di preciso quando sarebbe uscito da Azkaban, visto mi risulta sia stato arrestato dopo la Battaglia di Hogwarts?) in quanto importantissima per una profezia che parla del ritorno di Voldemort (sì ma profezia fatta DA CHI? QUANDO? COSA?) e bramosa di conoscere il vero padre.

Dai, su. Vi lascio qualche minuto per immaginarvi il coito. Divertitevi. Una roba tipo l’hawkward hug a Draco alla fine dell’ultimo film ma senza vestiti.
Se avete finito di vomitare possiamo tornare a noi.
Da un lato abbiamo Albus e Scorpius che fanno cazzate, dall’altra i genitori che cercano di metterci una pezza. Delphi è tornata di nuovo indietro nel tempo fino al 1981 per uccidere Harry e “salvare” Voldemort dal rimbalzo dell’Avada Kedavra, facendosi da lui conoscere; i due pischelli la seguono e gli adulti fanno altrettanto.
Perplessi?
Ne avete tutte le ragioni. Come fanno Harry&Co. A tornare indietro? C’è solo una Giratempo, l’ultima, quella di Nott!
Ahahah. No.
Deus ex Machina! Yeeee! Draco fa un gioco di prestigio e salta fuori che aveva pure lui una Giratempo in soffitta ma figa eh, tutta d’oro, subacquea e coi brillantini.
No ma tranquillo, ha tutto perfettamente senso.
I nostri eroi si incontrano nel 1981, neutralizzano l’inutile Delphi e non salvano James e Lily senior perché far casino col tempo non è una buona idea. Duecento pagine e ci siamo arrivati finalmente.
In teoria – e anche in pratica perché basta prendere i libri e LEGGERE le prime pagine scritte chiaramente – a Godric’s Hollow, nel prosieguo della scena chiaramente mostrato nella storia, sarebbero dovuti saltar fuori anche Hagrid e Sirius ma niente, non pervenuti.
Il tutto finisce a tarallucci, vino, amore paterno, abbracci e testicoli che rotolano in lontananza.

Vi sembra confuso questo riassunto? Lo è perché tale è il materiale di partenza. Ho tralasciato qualche dettaglio per concentrarmi sul succo della trama, ma fidatevi, non migliora la situazione.
“Harry Potter and the Cursed Child” è problematico su settantordici punti di vista, ma dopo aver mostrato cosa non va nella trama mi soffermerò sulle due note più dolenti.
Innanzitutto i personaggi.
-I giovani sono, come dicevo, trascurabili se non antipatici. James, Hugo e Lily non compaiono, cosa strana perché andando a esaminare i primi tre anni di Albus a scuola avrebbe dovuto interagirci. Ma va bene, va bene, script e non libro, tempi ristretti, quello che volete, ma a casa mia questa si chiama pigrizia. Sciatteria. Scorpius è carino, è tenero e mi sta simpatico; forse i Malfoy sono l’unica nota positiva nell’intero romanzo. Albus è forzato, tormentato per forza, mai soddisfatto, mai capace di porsi obiettivi. È semplicemente antipatico e sono felice di non doverne leggere mai più. Rose è un problema grave per i motivi che ho già espresso. Al di là del suo essere “figlia di”, Delphi non è caratterizzata; è piatta, poco interessante sia come cattiva che come personaggio con cui provare a empatizzare. Lei e i suoi stupidi capelli e il suo tatuaggio pacchiano: non bastano gli accessori per renderti affascinante, cocca.
-I vecchi… dove sono? Tolto Malfoy che mostra di essere cambiato ed evoluto (è un buon padre e mostra di avere un cuore, anche se il cervello non è pervenuto. Una Giratempo in cassaforte per tutto quel tempo? Ma sei serio?) gli altri sono terribili. Harry è un padre inqualificabile, uno che regala al figlio maggiore il suo fichissimo Mantello dell’Invisibilità e al mediano la copertina sgualcita in cui è stato deposto davanti a casa Dursley. Lily si sarà beccata un fazzoletto usato, immagino. Io capisco tutto, l’essere orfano, il peso delle responsabilità… ma questo ritorno al peggio di sé, pronto a insultare chiunque tenti di aiutarlo o gli dica che forse non ha sempre ragione mi è risultato alieno, lo stridio di unghie sulla lavagna. Ron, il leale, coraggioso Ron che accetta di essere il secondo perché il suo amico ha bisogno di lui, si è trasformato in un minchione che fa battute fuori luogo e parla solo di cibo, proprio da miglior – no, anzi, peggior – tradizione ficcynara. La meravigliosa Hermione regge nella cornice dell’opera, nel “presente” effettivo in cui la vicenda si snoda e nella sua versione ribelle nell’universo alternativo “Voldemort vince”, ma la professoressa zitella è offensiva. In uno dei mondi possibili, ve lo ricordo, non sposa Ron che invece si riproduce con la Patil e Hermione rimane da sola diventando una stronza peggiore di Piton… e il tutto perché non ha sposato Ron. Tutto qui. Il suo valore come donna adulta è determinato dal rapporto con un uomo, non da ciò che è – intelligente, caparbia, geniale, pronta a tutto per chi ama – no, è Ron a renderla meritevole di stima. Lasciata da sola diventa una cafona. L’ho trovato ripugnante. A Ginny non va meglio: la combattente di fuoco dei libri (già smorzata e trasformata in noia a pedali nei film) diventa una mamma noiosa e lasciata in un angolino a far la calzetta o poco più. Era l’occasione per farle spaccare qualche culo ma non sia mai che si sottragga screen time all’eroe protagonista.
Gli altri della vecchia guardia, soprattutto Piton e Silente, sono stati piazzati lì per mero fanservice e per ricordarci che ehi, Piton era BUONO LUI AMAVA LILY ERA UN SANTO. No, non è vero, era un uomo di merda che ha rovinato l’esistenza a un bambino la cui unica colpa era di essere figlio delle persone sbagliate. Che poi si sia comportato da eroe è un dato di fatto, ma non facciamo passare Piton per paladino immacolato che anche no.

E adesso passiamo a un altro, immane problema di questo libercolo: queerbaiting. Albus e Scorpius hanno tutte le caratteristiche della coppia. Pagina dopo pagina ci vengono presentati come sempre più legati, spesso in maniera anche “imbarazzante” per loro stessi (sono molto “fisici” nel dimostrare il reciproco affetto). Hanno una bella relazione solida al cui confronto le cottarelle per Rose – da parte di Scorpius – e Delphi – brrrr, da parte di Albus – risultano slavate e messe lì giusto per far capire che oh, non sono mica ghei.
Ma che male c’è? La Rowling, con tutto il bene che le voglio, è una gran vigliacca che ha evitato accuratamente di inserire orientamenti sessuali diversi dalla palese eterosessualità nei suoi main characters, salvo pararsi il culo in corner a saga finita con “Silente è gay”. Ok, va bene, hai sbagliato una volta ma puoi rifarti, puoi regalarci uno spiraglio di arcobaleno in quest’opera nuova.
E invece niente. Scherzone. Tutti etero e amici come prima.

Vedete, “Harry Potter and the Cursed Child” non è solo brutto e pieno di buchi di trama. “Harry Potter and the Cursed Child” è fastidioso, è goffo e raffazzonato, pieno di ingenuità che mi aspetterei da una Valpur diciassettenne che scrive di quel Remus innamorato di Sirius che va a recuperarselo nell’Inferno Dantesco (giuro, l’ho fatto). Che mi aspetterei da noi fanwriter col gusto del trash o semplicemente giovani e naif e poco professionali.
Non dalla madre di quest’universo. Non dalla Rowling.
Non comprate questo libro, davvero.
Ci sono storie più belle lì fuori, mondi immaginari in cui il Potterverse è rispettato e trattato come merita.
Perché quest’ottava storia sarà pure canon, ma è così brutta che mi è venuto il reflusso gastroesofageo.

… e poi il problema era Hermione nera.
Bof.

Solidarietà e nostalgia: la maturità

Sono quei giorni.
No, non sto parlando di uteri che esfoliano, ma di maturità. La bacheca di FB è piena di maturandi che si agitano, universitari che “va’ che dopo è peggio!”, gente che simpatizza e altra gente che ha ancora gli incubi.

Io, tutto sommato, non mi posso lamentare. Provo un certo affetto per i liceali sotto esame.

Al liceo andavo bene. Non che mi ammazzassi di lavoro, però riuscivo senza troppa fatica a portare a casa voti ottimi forse anche in virtù della mia notevole faccia da culo. Ero una brava studentessa, non particolarmente disciplinata (diciamo che mi facevo i beati cazzi miei a lezione ma senza disturbare il prossimo) ma abbastanza brillante da non creare problemi.
Ottimi voti in tutte le materie… a parte il greco scritto. Sì, sono una sopravvissuta al Liceo Classico; il ginnasio è stato tutto sommato gestibile e i miei sette-otto me li guadagnavo, ma dal terzo anno qualcosa si è inceppato. Voti eccellenti all’orale – anche in grammatica – corrispondevano a sangue e sudore per arrivare al sei negli scritti. Navigavo con astio crescente sul cinque e mezzo. Che voto di merda è, il cinque e mezzo? Dammi cinque. Dammi sei. Fammi inginocchiare sui ceci, che ne so, ma il limbo del “quasi sufficiente” è un’agonia che non raccomando a nessuno.
Com’è come non è, a un certo punto mi son detta che non valeva più la pena di sbattersi particolarmente, e quindi le mie versioni hanno assunto tratti di puro nonsense. Analizzare la costruzione delle frasi? E perché? La vecchia che tira la tegola in testa al re Ciro non ha comunque senso – va bene, sarà pure corretto, ma dai! Quindi traducevo parolina per parolina e poi riarrangiavo il tutto cercando una parvenza di logica. Che non c’era mai ma faceva molto ridere la prof. Santa donna, per fortuna che era una brava persona. Io mi sarei mandata a cacare per molto meno.

L’anno 2004 segna l’arrivo del rito di passaggio, delle Forche Caudine cui ogni studente arrivato in fondo alle superiori è costretto a sottostare.
Arrivo all’esame con una media più che buona e il massimo dei crediti possibili e immaginabili.

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Aspettative

Siccome era il mio periodo darkettone e, come detto qui sopra, non è che sprizzassi voglia di sbattermi da tutti i pori, la fatidica tesina verte sulle tombe e si traduce in un cartellone di cartoncino A5 spacciato per mappa concettuale con ricopiati in bella calligrafia i Sepolcri di Foscolo e una serie di foto stampate e incollate con la Pritt per i collegamenti. Thomas Gray e la sua Elegia Scritta in un Cimitero di Campagna, la tomba di Canova a Venezia e il Carme 101 di Catullo. Va’ che figata, va’.
(No, era ridicola, però per la mezz’ora di lavoro richiesto più che accettabile).
Avendo appunto la media dell’otto abbondante ho di che star tranquilla, e invece NO! Perché l’ansia è parte di me dal primo vagito.

Prima prova, tema. L’ultima cosa di cui preoccuparsi.
Ovviamente è subito panico.
Madreh impone una divisa d’ordinanza. E la maglia dei Cannibal Corpse no, e gli anfibi a giugno no, e il trucco sbavato nemmeno… e sticazzi, vado in jeans, magliettina azzurra e sandali scomodi come un cilicio. Praticamente una bestia di Satana invitata a un battesimo.

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Realtà

Il tema – uno sproloquio sulla bioetica e sulle colonne d’Ercole e non so cosa mi fossi bevuta quella mattina ma aveva senso ed è piaciuto – scorre senza problemi nonostante l’angoscia esistenziale. Il problema si pone all’uscita quando, con passo felino e agile mossa, la giovane Valpur tira un calcio allo spigolo metallico della bacheca e si apre un tallone; questo, aggiunto alle vesciche da scandalicilicio, non aiuta il buon umore.

Seconda prova.
Qui c’è di che soffrire, visto che era greco e io di greco era una sega. Anzi, ero una sega pure nell’essere una sega.
La mia classe – la terza B – in aula; i compagni della terza A in corridoio ricevono il plico prima di noi. La prof di matematica si affaccia e, di fronte ai nostri sguardi da cervo paralizzato dai fari del tir che lo sta per investire, sibila: “Ragazzi, è Platone!”.
Piovono madonne a grappoli.
Mi passa davanti tutta la vita: le aspettative dei miei genitori deluse, i nonni sconsolati, il cane che non mi rivolge più la parola, le doppie punte.
E poi arriva la botta di culo: la versione la conoscevo. Già tradotta (male), già portata in letteratura… sta di fatto che so cosa c’è scritto! Festa grande.
Ovviamente, essendo io una mentecatta, potevo non piazzarci un errore madornale nella prima riga? Eh no che non potevo. Errore che sospetto sia stato replicato da qualche compagno cui ho passato la versione, cosa confermata in sede di orale (ho negato l’evidenza ma nessuno mi ha creduto).
Ci portiamo a casa un tredici e sto.

Terza prova, ricordi confusi. In commissione capita educazione fisica, che uno dice eeeeh che figata, no? No, perché se questo permette sostanzialmente di levare una materia all’orale significa anche matematica E fisica in terza prova (oltre a latino, inglese e non ricordo quale altra materia). Matematica va insospettabilmente bene, fisica – in cui ero un asso – no, ma sticazzi, quattordici un po’ rubacchiato.
Nel bel mezzo della prova la mia astuzia da faina si rivela nel cercare di passare un bigliettino alla compagna più lontana. La prof di matematica segue la parabola con gli occhi e mi guarda come a dire “povera cara. Almeno sei simpatica, dai”. Io sfoggio la mia miglior faccia da culo e muoio un po’ dentro, ma la scampo.

L’orale! Finalmente! Finalmente davvero, perché è il quattro luglio, ci sono settantacinque gradi e sono la penultima di tutto l’istituto.
Il picco di adrenalina da maturità si è esaurito dopo mezz’ora di tema, quindi subentra lo scazzo primordiale. Questo, insieme al male ai piedi, fa sì che io mi affacci all’aula appena prima del mio turno dicendo: “Salve prof assortiti. Ho le vesciche sui piedi, vi spiace se faccio l’esame scalza?”
La prof di greco rotea gli occhi e “Hai fatto il cazzo che ti pareva per cinque anni, ci siamo rassegnati”.
La mia – ahahah – tesina viene pressoché ignorata salvo dal prof di filosofia, che passa venti minuti a ritagliare i bordi neri delle fotocopie e a disporli tutt’attorno al cartellone in guisa di necrologio. Probabilmente non ero la più scazzata lì dentro.
La farsa si articola in:
-Fisica che “scegli la domanda A o la B” e io scelgo la C perché quelle due robe continuavo a non saperle;
-Greco e l’ottusità di arrivare in fondo all’autore richiesto e continuare con quello subito dopo sul libro perché non è che ci fosse molto da dire;
-Inglese “Parlami di Tizio” “Scusi prof, ma Tizio chi è?” “E allora parlami un po’ di quel che ti pare che tanto l’inglese qui lo capiamo solo noi due”
-Storia e l’olocausto e io che mi ero studiata pure le note a piè di pagina per niente;
-Latino e il mio adorato Petronio, col prof che mi deve interrompere perché si stava facendo tardi.
Graziata di italiano e matematica perché nessuno ne aveva più voglia. Vago dispiacere.

Fine. Tutto qui. Massimo dei voti tutto sommato meritati in virtù di cinque anni di risultati soddisfacenti e via verso il tramonto glorioso.
Tramonto che si è poi rivelato essere un incubo fatto di biochimica, microbiologia e analisi 1, ma ehi, sono sopravvissuta pure a quello.
C’è speranza per tutti.

(E comunque le tracce del tema quest’anno erano fichissime e io sono invidiosa)

Storie di donne: “La tenda rossa”

91duubslrzlQuando ho letto “Le Nebbie di Avalon” ero a un momento cruciale della mia esistenza. Avevo appena fatto la maturità e mollato un moroso dopo due anni – che quando ne hai diciannove sembrano tantissimi -, si approcciava l’università col suo carico di interrogativi e paranoie ed ero a Parigi.
Bam, colpo di fulmine, libro che chissà come mi ritrovavo sempre tra le mani, che ho riletto appena dopo aver finito l’ultima pagina, che ho ripreso decine di volte negli anni successivi fino alla grande delusione.
Quel libro mi parlava. Mi ci ritrovavo: l’impazienza di diventare qualcuno, le delusioni, i fallimenti… erano fenomeni che avevo vissuto o che sapevo avrei incontrato. Per questo Avalon per me è stato per anni un luogo sicuro, un rifugio nei momenti peggiori; per questo ha fatto così male non riuscire più a leggere la storia di Morgana senza provare disagio.
Ora ho trovato un romanzo che no, non va a riempire quel vuoto, ma mi dà la netta sensazione di sollievo, di guarigione.
“La tenda rossa” di Anita Diamant è tristemente quasi introvabile in italiano, sebbene non sia poi un libro così vecchio. L’ho letto in lingua originale senza aspettarne la traduzione perché c’era qualcosa – da qualche parte lì, in quarta di copertina, tra le recensioni di Goodreads – che mi suggeriva di farlo subito.
Perché anche adesso sono in un momento di transizione. I trent’anni, le responsabilità, la casa nuova, il “cosa voglio fare da grande” che incombe e non riesco a capire se grande lo sono oppure no… insomma, un classico, no?
Questo libro è arrivato quando ne avevo bisogno.
La storia è tutto sommato semplice: Dinah, l’unica figlia di Giacobbe, quella di cui la Bibbia parla a stento e solo come fattore scatenante delle vicende della sua tribù, racconta come sono andate le cose dal suo punto di vista. E non solo il suo: quello delle sue madri, sorelle tra di loro nonché mogli del patriarca – Leah che l’ha messa al mondo, Rachele che le ha insegnato le arti di levatrice, Zilpah e le sue visioni, la gentile Bilhah. E ancora la storia di Rebecca, l’altera, nobile e fredda madre di Giacobbe, e di Re-nefer, madre del grande amore di Dinah, e di Meryt, sua amica fino in fondo. Di altre, tante altre donne, tutte all’ombra della tenda rossa che dà il nome al romanzo: il luogo in cui le donne della tribù si riuniscono nei giorni del ciclo per raccontarsi storie, riposare e venerare le proprie dee.
La Diamant è ebrea ed è molto ferrata nella sua stessa mitologia; ha persino scritto svariati manuali sull’ebraismo moderno ed è abbastanza evidente, leggendone la biografia, che sia una persona religiosa. Eppure ciò che scrive trascende i limiti del culto. Prendere un personaggio chiave della Bibbia come Giacobbe e renderlo umano, estrapolarlo dal contesto mistico in cui è inserito, lo trasforma in nient’altro che una persona. Affascinante, intelligente, meschino e fragile: si arriva a odiarlo e a provare pena per lui, eppure in nessun momento ho percepito la narrazione come irrispettosa.
Sì, ci sono anche gli uomini: Giacobbe e Laban, nonno di Dinah e padre delle sue madri, l’amato Shalem e Benia, Giuseppe e tutti i suoi fratelli… ma la tenda rossa vive senza di loro, per quanto essi vi orbitino attorno.
Questo romanzo parla di donne alle donne, e non è una frase fatta. La moltitudine di personaggi femminili che ne popolano le pagine è viva, vera e per niente imbellettata. Leah ama sua figlia ed è sveglia e brillante, ma è anche prepotente e materialista. Rachele? Bella, affascinante ma capace di portare rancore per tutta la vita. Persino la quasi mitologica Rebecca è crudele e vanesia, eppure potente, e la povera Ruti, l’ultima moglie del vecchio Laban, viene spesso maltrattata dalle altre donne, che convivono con il senso di colpa per non essere state capaci di includerla. Non ci sono sante o eroine in questa storia, solo persone con un sacco di difetti. La cosa meravigliosa, però, è che questi ultimi – e parliamo di reali aspetti negativi, non di piccoli capricci da diva – non impediscono a nessuna di esse di trovare l’amore. Non però quello del “principe azzurro” (che qui non c’è proprio, da nessuna parte, anche a cercarlo col lanternino): quello delle altre donne, delle nostre sorelle che nonostante tutto ci tengono per mano e ci accompagnano durante la vita.
Quella di Dinah, di vita, è tutt’altro che semplice. Prima bambina che vuole diventare donna, curiosa e ingenua e un po’ relegata ai margini di una società fatta di madri – e quindi donne adulte che vivono l’esclusività della tenda rossa – e di uomini – un piccolo esercito di fratelli assortiti nati dalle quattro madri. Poi gettata nel mondo adulto in un lampo di gioia che si tinge subito di sangue… insomma, c’è poco da spoilerare, la storia è quella raccontata nella Bibbia, ve l’ho detto, con un twist. Shalem non la rapisce e violenta ma è lei a sceglierlo, causando una faida tra le famiglie che culmina col massacro del principe canaanita e della sua stirpe e la fuga di Dinah.
Via dal passato, dalle madri che soccomberanno alla disperazione, all’età o alle minacce del parto, con una maledizione sulle labbra: Giacobbe e i suoi figli pagheranno per quanto hanno fatto.
E così è, perché i figli di colui che si farà chiamare Israele per allontanare la maledizione – senza riuscirci – troveranno la rovina e venderanno Giuseppe agli egizi… ma questa è un’altra storia. Viene narrata, certo, ma non è centrale: all’inizio questo relegare la leggenda che conoscevo così bene alle ultime pagine mi ha spiazzata… insomma, è roba grossa, ci hanno fatto pure il film e tutto il resto. Poi però ho capito: non è di Giuseppe che stiamo parlando. È Dinah che racconta, Dinah che ha sofferto e attraversato amore e odio per approdare alla serenità e all’amicizia.
Pensateci: quanto è difficile, in un romanzo commerciale, trovare raccontata la vera amicizia tra due donne? Quante volte i personaggi femminili sono rivali, oppure accostati senza approfondirne il legame? “La tenda rossa” dedica ampio spazio a questi sentimenti ed è meraviglioso. E non solo: il sesso, la maternità, lo strazio della nascita e della perdita, le mestruazioni… tutti temi che se vengono raccontati spesso lo sono sottovoce, con perifrasi e dico/non dico. Qui no, è tutto normale, è parte della vita e non c’è nulla di vergognoso in questi argomenti. Una boccata d’aria fresca, davvero.
La vicenda è raccontata in prima persona da Dinah, che ci prende per mano fin dal prologo e ci fa sedere con lei davanti a un fuoco per narrarci la sua lunga vita.
Sono arrivata all’ultima pagina con le lacrime agli occhi e un mezzo sorriso in faccia. Tutto ha una fine ma forse no, perché continuiamo a vivere nel ricordo del prossimo e in quello che abbiamo lasciato al mondo. E insomma, dopo trecento pagine di patimenti e perdite e sangue è consolatorio avere un finale dolce, di una malinconia pulita e rassicurante.
“La tenda rossa” non è perfetto, ma non importa. Anche questo libro mi ha parlato e mi ha lasciato tanto. Leggetelo perché è molto più che una semplice, bella storia ricca di avventura.
Leggetelo perché a me ha lasciato la sensazione di guarire qualcosa che nemmeno sapevo stesse soffrendo.

Caro recensore ti scrivo

Anton-ego-1Caro recensore ti scrivo perché ti conosco bene. Non per una questione di supponenza eh, è solo perché sono proprio come te.
Caro recensore ti scrivo perché abbiamo lo stesso hobby: giudicare le cose.
Che adesso non giriamoci intorno, è divertente, ci piace proprio farlo. Non tanto – o non solo, almeno – per consigliare il prossimo riguardo prodotti (in questo articolo libri, ma si applica a tutto, dai videogiochi ai prodotti per la manutenzione del decespugliatore) che ci sono passati tra le mani. Ci piace recensire perché possiamo avere l’occasione di sfogare quella parte di noi che freme dal desiderio di dare giudizi e che di solito ci tocca tenere sotto controllo. Lo si fa, in sostanza, perché ci permette di darci un tono mentre facciamo qualcosa di socialmente accettabile.
Caro recensore ti scrivo perché, come scrivevo qui, ho letto qualche recensione sulle recensioni. Recenception, in pratica.
E lo so, lo sappiamo entrambi che gli scrittori (tra cui con un certo disagio annovero anche me stessa) sanno essere permalosi o supponenti o convinti che l’unica critica buona sia quella positiva, ma a voler essere sinceri il fantomatico palo su per la cavità rettale dovremmo levarcelo anche noi quando diamo il nostro parere su un’opera.
Caro recensore ti scrivo perché ci sono tante cose che mi mandano in bestia quando si indossa toga e parruccone da giudice, soprattutto in caso di sentenza negativa.
Prendersela con l’autore o autrice è da mentecatti. Se non si conosce la persona in questione è semplicemente patetico, dà tanto l’impressione del litigio tra bambini che si conclude, in mancanza di argomenti, con “GNÈ GNÈ E TU PUZZI!”. Se lo si conosce è meschino perché è proprio una ripicca allo stesso livello di infantilità del caso precedente. Stesso dicasi in caso di valutazione positiva: “Un genio, ha solo diciassette anni e va’ cosa ha scritto!”. Ennò, se un libro è bello lo è e basta, non c’è la medaglia baby autore – nonostante quell’orrida ondata di cuccioli di fantasy dei primi anni Duemila, dove gli editori si appostavano fuori dai reparti di ostetricia per accaparrarsi l’autore più giovane sulla piazza.
Caro recensore ti scrivo perché devi sapere che detestare un’opera è un tuo diritto così come lo è esprimere questa tua opinione, ma puoi scegliere se farlo con classe oppure se fare la figura del buzzurro inacidito. Hai un grande potere, ricordati: la tua opinione è vera. Punto.
Se dici “quest’opera mi ha fatto sonoramente schifo” chi mai potrebbe criticarti? Sì, sì, lo so. Lo faranno. Se hai la sfortuna di trovare letalmente noiosa un’opera con una solida – e magari invasata – fanbase vedrai calare su di te la furia degli offesi, che in confronto le Erinni sono dei minipony al marzapane. Preparati e fatti un esame di coscienza: se il tuo giudizio è obiettivo (e per carità, ti scongiuro fa’ che lo sia, lascia stare i capricci o le stroncature per vendetta perché mi rovini il buon nome della categoria) proveranno a farti a pezzi ma questo non potrà cambiare ciò che pensi. Poi può anche darsi che qualcosa non ti sia piaciuto perché non lo hai capito, e qui sta a te ammettere le tue eventuali lacune o un errore di un autore poco chiaro.
Caro recensore ti scrivo perché è vero, esistono libri brutti. Libri scritti con stile sciatto o, che Nyarlathotep ce ne scampi, pomposi fino alla nausea. Storie banali o traballanti, grammatica zoppa.
Insomma, il classico librodimmerda. Gli scaffali, virtuali e fisici, ne sono pieni. Mi sa che ne ho scritti un tot pure io.
Esistono e sempre esisteranno, e tu hai, come dicevo prima, il pieno diritto di dire che non ti sono piaciuti. Però, caro recensore, fammi, facci e fatti un favore: prima leggili sul serio. Non dico fino in fondo, che come insegna Pennac è tuo diritto anche lasciare un libro a metà, ma abbastanza da farti un’idea di cosa hai tra le mani. Se poi a metà della quarta di copertina hai già la pellagra per lo schifo forse è il caso di lasciar perdere tutto, lettura e recensione. Il tuo fegato ti ringrazierà.
Caro recensore ti scrivo perché hai un potere notevole, ovvero la libertà di parola. Non aspettarti di essere apprezzato, non aspettarti i ringraziamenti dell’autore, che quello potrebbe benissimo non leggerti o decidere di ignorarti (nel bene e nel male!) o essere convinto che qualunque critica tu gli muova sia dettata dall’invidia o dal desiderio di distruggere il suo castello di sabbia. Sii onesto, solo questo ti chiedo.
Hai letto una ciofeca? Dillo. Spiega cosa non ti è tornato e ricordati che un apostrofo al posto sbagliato è un errore oggettivo, ma se quel tal modo di scrivere a te non piace è solo questione di gusti. Quindi hai un grande potere ma non sei dio (ho provato a mandare il curriculum per la posizione ma non mi caga nessuno perché “troppo qualificata”). E magari hai pure dei gusti cialtroni, anche questo un aspetto da tenere a mente con serena obiettività. Puoi benissimo dire che 50 sfumature ti è piaciuto di brutto, ma non che è un capolavoro indiscusso della letteratura mondiale.
Caro recensore ti scrivo perché lo so, fa salir la rabbia quando dedichi qualche ora del tuo tempo a un libro e poi salta fuori che è brutto, ma fatti una risata. Lo dico pure a te: cala cala, Merlino (cit.), perché non stai facendo qualcosa di così importante, quindi tanto vale farlo con ironia e divertirsi un po’ mentre lo si fa.
Sì, anche se lo si fa in maniera seria e coscienziosa.
Altrimenti, caro recensore, che gusto c’è?

Lettera a un apprendista scrittore (come me)

desperateaboutbillsCaro apprendista scrittore, sono come te. Ricordatelo molto bene perché sostanzialmente io sono una Signora Nessuno come tante ce ne sono al mondo, solo con qualche anno di esperienza, livore e rosicamenti sulle spalle.
Ho iniziato a scrivere che avevo diciott’anni e a sguazzare nel torbido mondo dell’editoria un paio d’anni dopo, facendo principalmente un gran casino prima di raccapezzarmi e mettermi a fare le cose a modo. E vuoi sapere, caro apprendista scrittore, cosa intendo per “a modo”?
Senza prendersi sul serio. Che sennò non se ne esce più.
Come forse avrai letto se bazzichi per queste pagine, caro apprendista scrittore, ultimamente sto partecipando a IoScrittore – sai, torneoneONE in cui ci si valuta a vicenda e si vincono ricchi premi e cotillon – e diciamo che ecco, ho passato la prima fase. Mica me lo aspettavo, sai? Col genere che scrivo io di solito arrivano pomodori e cavoli fradici, non certo i reggiseni lanciati da fan sdilinquite. Il che è un peccato, perché avrei giusto bisogno di sistemare il mio cassetto dell’intimo, che piange miseria.
E niente, dicevo, ho passato questa prima fase con tanti commenti entusiasti che mi hanno regalato un paio di cm di altezza in autostima, portandomi quasi nella media nazionale, e la possibilità di gironzolare ancora un po’ nel mondo che circonda questo torneo. Che, manco a dirlo, è uno spaccato abbastanza fedele di quella che è la fauna scrittoria italiana: quindi partiamo dal particolare e inoltriamoci pure nel generale, tanto il discorso che sto per farti vale per tutti.
Vedi, caro scrittore in erba, spero non ti offenderai. Quello che sto per dire non è assolutamente rivolto a te. Figuriamoci. Tu sei la fulgida eccezione che conferma la regola. Che te lo dico a fare?
Però ecco, questa fauna non è mica tanto bella.
Siccome i partecipanti a IoScrittore sono quasi quattromila e i selezionati giusto trecento, è ragionevole affermare che ci siano circa tremilaesettecento esclusi.
Questi numerosi insoddisfatti reagiscono in svariati luoghi del web – principalmente sul blog del torneo stesso – nel peggiore dei modi.
Il recensore negativo è un incompetente, un infame, un malizioso che mira solo ad affossare il Grande Talento (e cerca di capirmi, caro apprendista scrittore: Grande Talento una beneamata minchia, perché nella quasi totalità dei casi si tratta di libridimerda), un automa schiavo del sistema, del gregge di ignoranti che non colgono la Suprema Poesia Dell’Artista.
Ecco, no.
Se su dieci persone ben dieci ti dicono che quella tal cosa non va bene non è che non hanno capito, è che tu – non tu tu, caro apprendista scrittore, figurati – scrivi col culo. Punto.
E fidati, fidati di me, non è la fine del mondo. Scrivere è bello, io stessa ho una dipendenza dalle storie che mi porta a macinare libri e pagine a un ritmo poco decoroso. Però c’è di meglio nella vita. C’è altro. Essere uno scrittore non ti rende migliore degli altri, non più del vicino di casa che strimpella Battisti su una chitarra scordata o che si improvvisa sassofonista.
No, ok, forse un po’ meglio del sassofonista sì. Almeno non scassi il cazzo al pross-ah, no! Scherzavo! Perché quando sei scrittore mica devi esserlo per te, che sennò che gusto ci sarebbe? Siilo per gli altri! Sbandiera tutto il tuo processo creativo! Rompi i cabbasisi all’internèt tutta per dimostrare che ehi, tu sei Oltre, c’hai la sensibilità.
E mentre lo fai, mi raccomando, premurati di non imparare il buon senso, l’umiltà e l’autoironia.
Perché vedi, caro apprendista scrittore, accettare le critiche è così cheap.
(Nell’improbabile caso che tu non sia dotato di suddetta autoironia specifico: sì, sono ironica)
Dai, torniamo seri un istante, ti va, caro apprendista scrittore?
Ho visto reazioni scomposte a giudizi perfettamente legittimi. Che poi ogni giudizio lo è: è diritto di tutti dire “la tal opera mi ha fatto sonoramente schifo”.
Anche così, senza giustificazioni che non ti sono dovute, è un’opinione lecita. Hai scritto qualcosa, l’hai dato in pasto a un lettore, a questo lettore semplicemente non è piaciuta. Fine.
Non è che se ne muore. Se ti vengono dati consigli puoi farne tesoro o anche no, non te lo dice certo il medico e non fa mai bene essere spugne che assorbono tutto ciò che il prossimo dice. Ma se questo prossimo ti fa notare un’incongruenza non è lui a essere stronzo, sei tu che hai scritto, come dicevo prima, col culo.
E lo ammetto, faccio candidamente coming out: mi sono un po’ stancata di questa menosità, dell’intoccabilità dell’Artista di stocazzo. Mi sono stancata di leggere recensioni negative su Amazon che a un sacrosanto “non mi è piaciuto, mi ha annoiato” si vedono rispondere da stuoli di prefiche inorridite che minacciano calamità e rappresaglia e CuginiDellaPostale e “la recensione è falsah! SEISOLOINVIDIOSA!”.
No. Mo’bbasta. Avete rotto tre quarti di minchia. Voi, suffragette della recensione positiva a tutti i costi, e ancor più voi, autoruncoli supponenti che sguinzagliate più o meno consapevolmente – propendo per il più – il vostro esercito della salvezza.
Ti do un consiglio, caro apprendista scrittore: quando ti dicono che la tua storia è brutta forse hanno ragione. Non necessariamente, ma forse davvero c’è qualcosa che non va. Chiaro, se il commento è un “Ahahah chemmerda muori male autore puzzone” è lecito che ti venga il dubbio si tratti di un troll, ma di fronte a pareri – pareri, bada bene, non verità pretenziose – anche ben argomentati fatti due domande, datti due risposte e beviti qualcosa in compagnia degli amici, perché per quanto scrivere sia bello ci sono cose più importanti.

Scrivi e divertiti, goditela perché è una figata quella sensazione di creare mondi e inventare storie. Però, per cortesia, fattela una risata. Giuro che si vive meglio e non si passa per mentecatti.

(E documentati, per dio. DOCUMENTATI perché se leggo un’altra volta di gente che scrive di roba che non sa senza aver approfondito il genere giuro che spacco qualcosa)

(Not so) Unpopular Opinion – Game of Thrones (mi) ha rotto il cazzo.

 

Sono una di quelle che è approdata alle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco con qualche annetto di ritardo rispetto al mondo ma comunque in anticipo rispetto all’uscita della serie tv. Anzi, a dirla tutta ai tempi è stato proprio l’annuncio della serie a farmi prendere in mano i libri.
Gaso a mille! Epicità! DRAGHI! WOOHOO!
E adesso, a distanza di sei anni, mi trovo qui a mugugnare e borbottare perché, molto banalmente, la serie non mi piace più.
Ce l’ho con Martin e la sua mancanza di voglia – legittima quanto vuoi ma io rosico lo stesso – che gli farà, secondo me, mollare una saga a cui non è più interessato. Quasi ci spero, vista la scarsa qualità di A Dance with Dragons.
Ce l’ho con quei due cialtroni di Benioff e Weiss cui hanno dato un bel giocattolone e lo hanno rovinato (che poi suddetto giocattolone inizi a far schifo di suo è un’altra questione).
Ce l’ho molto di più con me stessa perché mi faccio paranoie riguardo al fisiologico mutare dei gusti, ma sorvoliamo.

Fino all’anno scorso il mio astio era ascrivibile alla mia natura di book purist scassamaroni. La quasi totalità dei cambiamenti fatti rispetto allo script originario mi ha fatto cadere le palle e il taglio di svariati personaggi mi irrita ancora adesso. Datemi Lady Stoneheart, datemi Arianne e nessuno si farà del male… forse, visto che la storyline di Dorne è quanto di più imbarazzante io abbia mai visto in tv. E io guardavo Pasión Morena.
Ragionandoci su, però, mi sono accorta che c’è dell’altro, soprattutto ora che i due media divergono e divergeranno sempre più.
La verità è un’altra ed è molto banale.
A me Game of Thrones sta sul culo. In ogni sua manifestazione.

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Cose Completamente a Caso

Il sospetto mi sarebbe dovuto venire fin dall’inizio. Per quanto abbia divorato e apprezzato immensamente i primi quattro volumi (parlo della versione in inglese, i ventordici opuscoli pubblicati da Mondadori con copertine al limite del criminale – TEMPLARI? Ma siamo seri? – non li considero) c’era già il sospetto che qualcosa non mi tornasse.

Per esempio il fatto che immancabilmente i fan favourite mi risultassero gradevoli come le emorroidi dopo la serata “Degustazione di habanero”.
Ho odiato Danaerys fin dal secondo capitolo, giusto il necessario per capire cosa ci facesse in quel libro. Odio il suo essere Ammerega Fuck Yeah che porta la Libertà e la Dragocrazia e odio che in realtà non sappia fare niente, odio il suo oscillare tra “sono la regina di stocazzo” e “sono una povera ragazzina che sta imparando l’arte di regnare”.
Dopo la fine del primo libro ho sviluppato un astio immane nei confronti di Arya, lo Stereotipo Deambulante di eroina inutilmente badass, priva di spessore, con un’evoluzione che in realtà è piatta e noiosa (ha passato quattro libri a dire di volere vendetta, a ripeterselo in maniera ossessiva e scusate, ma per tanto così mi prendo un cacatua e gli insegno a dire l’elenco dei morti).
Jon Snow semplicemente mi annoia fino alle lacrime, peggio dei capitoli di Davos o, giuro, di Bran. In cui ok, non succede niente, ma almeno non passano pagina dopo pagina a rompermi l’anima con le loro lagne.
Poi l’attesa snervante, l’emozione per l’uscita del nuovo libro! E, giusto quei tre-quattro giorni necessari per la lettura dopo, il suono riecheggiante dei coglioni che mi si sviluppano, si gonfiano e cadono rotolando via. Persino chi seguivo ancora con un briciolo di interesse – Tyrion – passa il tempo a remare e a contarsela su con gente a caso; Dany passa direttamente allo stadio di sasso coperto di muschio e sta lì a far niente.
Altro che chiudere le fila, qui si aprono millemila nuovi filoni narrativi a cui non riesco ad appassionarmi e non si quaglia nulla.
La serie tv, dal canto suo, ha retto egregiamente per le prime tre stagioni. Non perfette, ci mancherebbe, e con un adattamento spesso demenziale, però avevano il loro perché. Eppure anche qui ritrovavo i fastidi dei libri, aggravati dal fatto che, per dire, Emilia Clarke è un’attrice così agghiacciante che mi sale l’orticaria ogni volta che la vedo in video. Kit Harington non è da meno, ma sembra un cagnolino triste e mi irrita di meno.

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UER AR MAI DWAGUNZ? (Scusa Corinna, non ti volevo offendere)

 

E poi è arrivata la quarta stagione.
Ora, io ho un problema con le serie tv. Parto lanciatissima, mi innamoro della prima stagione e attendo con ansia la seconda. Questa di solito è all’altezza e mi conferma il fomento, ma già l’attesa della successiva si vena di inquietudine. La terza a volte funziona ancora, pur con qualche ammaccatura, ma poi arriva la quarta. E qui sistematicamente – come avevo fatto ai tempi anche con Lo Hobbit – io faccio i numeri per convincermi che è ancora una figata e che la sto guardando volentieri. Mi mento spudoratamente e ormai lo so, perché poi arriverà la quinta e io tirerò giù tutti i santi del paradiso abbinandoli a canidi e suini. Mi è successo con Downton Abbey, mi sta ricapitando molto tristemente con Vikings, ma Game of Thrones è ciò che mi ha fatto formulare la teoria.
La quarta stagione è l’ultima che ho guardato con soddisfazione, ma solo e unicamente per la presenza di Oberyn Martell. Fossi stata meno ingenua, ai tempi, mi sarei risparmiata di covare speranze per la storyline di Dorne dopo la sua morte.
Invece no. Ci ho sperato e ho picchiato la faccia contro QUESTO:

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Belline, eh, ma intollerabili quasi quanto i capezzoli sull’armatura.

Arrivata alla quinta stagione erano più le bestemmie che gli aggiornamenti facebook sulle puntate e ho capito che non era più cosa. Tutti quei difetti che in passato erano finiti in secondo piano, scalzati dall’entusiasmo, adesso mi nauseano. La CGI è brutta (e Dany che scappa sul drago è peggio di Atreyu su Falcor, ma che non ce li avete du’spicci in più?), i personaggi sono sempre più macchietta e persino Tyrion è diventato insopportabile, lo sviluppo psicologico viene costruito a cazzo di cane. E poi mi hanno mandato a vacche la storia di Sansa, l’unica di cui ancora mi importasse, sfruttando quel deprimente, orribile stratagemma dello “stupro per far andare avanti la trama” (che poi in questo caso manco va avanti, non è la molla di niente per Sansa che pora stella ha già sofferto abbastanza. Ma ehi, è una donna, quindi cosa c’è di peggiore che Rubarle La Sua Innocenza? Fncl).

È diventata troppo uguale a se stessa, GoT, troppo viscida e sghignazzante nel perpetrare i propri lati più trash e più – immagino – forti nella loro presa sul pubblico. Mi sento presa in giro, e non solo come lettrice che ormai si è rassegnata al fatto che carta e tv vadano su due binari diversi.

Però che faccio? La mollo e mi perdo una buona fetta di discussioni oltre ai riassuntoni del Dr. Manhattan? Mi autoescludo volontariamente dal fandom?
I Grandi Dubbi Esistenziali.
La sesta stagione ha appena debuttato e, pur essendomi spoilerata lo spoilerabile (grazie Fastwebdimmerda che ancora non mi hai messo la linea a casa e io non posso vedere le cose sull’internèt), il fomento non è salito. Rimane solo una continua, amara frustrazione per qualcosa che mi è piaciuto tantissimo e che ora mi ha lasciato solo la vena polemica.
Un po’ come quando ti molli col moroso prima dei vent’anni. Che lui all’inizio è tanto carino e magari popolare e ti risveglia i più bassi istinti e poi però ti accorgi che gli puzzano i piedi, che non sa cosa sia l’orgasmo femminile e in più ride in quella maniera così irritante che mannaggialclero ti incasso il naso in faccia a furia di cazzotti. Finché dura la cotta iniziale ci si passa sopra.
Poi vien voglia di passarci sopra ancora. A lui. In macchina. Ripetutamente.
E quindi mi sa che anche basta.

(Postilla: non vogliatemene, fan della serie. Sono solo invidiosa di voi che ne siete ancora innamorati: mi piaceva che GoT mi piacesse e provo un filo di nostalgia)

Tornare bambini al cinema: Il libro della giungla

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Ci sono film che fanno parte della nostra infanzia. Un botto di film Disney, per l’esattezza: sono venuta su a suon di repliche selvagge di Robin Hood, La spada nella Roccia, Aladdin e Il Re Leone.
Non che sia cambiato molto, col tempo: non ho mai smesso di (ri)guardare i classici e di aggiornarmi su quelli nuovi.
(*Inserire qui lungo rant su quanto sia PESSIMO FROZEN e il suo cazzo di pupazzo di neve e i personaggi che paiono usciti dalle Winx e quei minchia di troll che bho mi sale l’integralismo matematico*)

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Life goals: microwave Olaf

Ecco, Il libro della giungla non rientra tra i miei amori di gioventù. Non che non l’abbia guardato, capiamoci, e non che non mi piaccia, ma non è un evergreen come – per me – come non lo sono Peter Pan (di cui ho sempre detestato la trama e la faccia da schiaffi di Peter) o Dumbo (che dovrei guardare sotto acido per dargli una seconda chance).
Però… c’è un però.
Kipling, quel bastardo imperialista, ha scritto un libro che ha segnato la mia vita. Complici alcuni lustri di scoutismo la storia di Mowgli l’ho sentita e risentita un milione di volte. E sistematicamente ho pianto per la morte di Akela, ho avuto i brividi quando Shere Khan arriva alla pozza e sparge sangue nell’acqua dopo aver predato l’uomo, ho vissuto con autentica inquietudine la cattura da parte della Bandar Log e così via.
Potevo non andare a vedere il nuovo film? No che non potevo, e infatti ci sono andata.
Sicuramente vederlo in lingua originale sarebbe stato meglio (Idris Elba e la Scarlett da soli mi valgono l’intero cast) ma mi sono trovata davanti a una scelta: guardare il film sul tristanzuolo schermo del mio computer oppure su quella LANDA INFINITA DI MERAVIGLIA E FOTONI che è lo schermo gigante dell’Arcadia di Melzo? Col sistema audio nuovo che ti fa vibrare le budella? Direi che non c’è gara, anche se più avanti rimedierò e renderò giustizia al cast originale.
Devo dire che i doppiatori italiani fanno davvero un buon lavoro, soprattutto Servillo che è un Bagheera azzeccatissimo e la Mezzogiorno che come Kaa mi ha convinta appieno. Meh invece Violante Placido, non all’altezza della mia Lupita del cuore. Soprattutto perché Raksha è uno dei miei personaggi preferiti dell’intero romanzo (insieme a Won-tolla, che purtroppo non ha posto nel film. Ma un lupo più cazzuto di lui non c’è).
Il regista Jon Favreau ci riesce, prende un classicone dell’animazione Disney, ci mette gli animaloni in CGI e non fa una porcata. I panorami sono mozzafiato e, complice anche l’incongrua immensità dello schermo cinematografico, in qualche momento ho avuto seriamente le vertigini. È tutto così bello, così rigoglioso e pieno di vita in ogni angolo dello schermo – date tutti i premi del mondo ai jerboa! – che ho quasi rimpianto il (pur meraviglioso) 3D che mi ha tolto come sempre un po’ di definizione.
La trama è quella, c’è poco da girarci attorno, e pure quelle due canzoncine messe qua e là; i microcambiamenti nel testo sono stati piuttosto fastidiosi, questo devo ammetterlo. E anche il lupino che si chiama “Grey” (Christian, is that you?) e che per me sarà sempre e per sempre Fratel Bigio.
Se la trama la conoscevo prima ancora di arrivare nel parcheggio del cinema, però, il resto delle emozioni mi sono giunte nuove. Non per qualità ma per quantità: non mi aspettavo di avere gli occhi lucidi dopo dieci minuti, né che Shere Khan che irrompe nella Tregua dell’Acqua mi desse così tanto i brividi.
Il film poi non ha fatto benissimo alla mia vaga fobia delle scimmie. Quei dannati omini pelosi sono inquietanti già di loro, ma Louie è un mostro gigantesco e violento, pericoloso quanto Shere Khan ma ancora più brutale.
(Shere Khan che, sospetto, è fatto di carne, ossa e benzina, perché esplode quando cade nel fuoco. Questa scena, così come la fuga dei bufali, pesca a piene mani dal Re Leone e io un po’ ho goduto)
Gli animali sono fatti bene, davvero bene. Sono tutti grandi, enormi, addirittura a dimensioni variabili: si passa da un Baloo normalissimo grizzly (carino come la storia sua e di Baghee sia suggerita e sottintesa) che dorme serafico nella sua grotta a una montagna di pelo e muscoli mentre combatte. Lo stesso capita a tutti gli altri e se all’inizio mi sembrava una svista andando avanti l’ho considerata una scelta ragionata ed efficace.

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Baloo e Bagheera coppia dell’anno (e quand’ero pischella mica ci pensavo a ‘ste cose ma SONO BELLI)

Certo, non è un film perfetto. Sono rimasta delusissima dalla morte di Akela, scagliato via da Shere Khan a metà di una battuta ma senza lasciare lo shock della tragedia improvvisa. E ok, tutta la storia dei Dhole non era parte della trama e la straziante fine del vecchio capobranco non avrebbe mai avuto posto sulla pellicola, però insomma, a me i lacrimoni vengono lo stesso se ci penso. È un po’ infantile per certi versi, semplicistico… e sticazzi, dico io, perché in quella sala immensa sono tornata bambina di nove anni, impegnata a elencare tutti gli Ikki e i Rama e i Chil e i Rikki Tikki Tavi sullo schermo per badare a qualcos’altro.
Guardatelo. Da bravi.

(Mi rendo conto di non aver praticamente neanche citato Mowgli, ma diciamoci la verità: di Mowgli frega un po’ poco a tutti. Ci sono gli animali parlanti e insomma, a me questo basta e avanza)

Home is where the cats are – cronache di un trasloco

Dopo un paio d’anni in un appartamento condiviso con fauna di svariata natura – tra cui la protagonista di questo evento – e cinque in un loculocale in cui il bagno era ricavato in un angolo della cucina malamente delimitato da due pezzi di cartongesso giunge il momento, per la Valpur e il consorte, di levarsi di culo.
Anche perché a me Milano sta sul piloro, mi manca il verde e sono troppo contadinotta dentro per sopravvivere alla metropoli.

pozzetto
Mettetegli una parrucca rossa, gli occhialoni e TAAAAC, sono io.

Prima o poi scriverò un post su quanto sia snervante trovare una casa decente. Si va dai reflui tossici a sorpresa alle camere da letto con affaccio sopra alle discoteche.
Alla fine, comunque, salta fuori quella casetta proprio carina, abbordabile, col giardino e un vicinato dall’apparenza pacifica (e che suppongo sarà infestato da serial killer).
Qualche settimana di inscatolamenti, acquisti a caso – possiedo quattro lampadari ma nessuna scala con cui montarli – arriva il momento.
Ci spostiamo.

E trasloco fu. Il bilancio – sei piatti rotti, una tendinite, svariati stiramenti e dita peste – è positivo, ma spero passino almeno dieci anni prima del prossimo perché non ne uscirei viva.
Non per altro, eh, ma I GATTI.
I gatti sono comprensibilmente l’ultimo carico da spostare.
Sabato il vecchio appartamento viene spogliato di ogni mobilio a parte il letto-catorcio.
Condizioni generali: un Victor appallottolato sotto al letto con occhi pallati e sguardo smarrito, una Guercia spalmata contro al muro, confusa.
Passo la notte in preda all’ansia (no, non è vero. Ho passato l’ultima settimana in preda all’ansia) al pensiero dello spostamento felino, e alla fine giunge il momento.
Domenica pomeriggio si torna un’ultima volta a casa con la consapevolezza che one shot one kill o non li si becca più. La Guercia, soprattutto.
Ingredienti: due umani, due gatti traumatizzati, un trasportino grande e uno piccolo. Facile intuire chi dovrebbe stare dove.
Pronti via, si entra in casa e BAM! afferro la Guercia che, tesoro, si fa tutta molle e si lascia sollevare. A questo punto sembrerebbe impresa facile: basta calarla nel trasportino tenuto in verticale e AHAHAH scherzone. La Guercia, che non pesa più di due chili, si apre a stella marina e sfodera una forza spaventosa.

La mollo, si rintana sotto il letto, io mi faccio prendere dal panico e scoppio in lacrime perché “ECCO! ORA MI ODIERA’ PER SEMPRE!”

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Io non posso tollerare che questa creatura non mi ami!
Nell’ora successiva altri quattro tentativi di immersione nel trasportino falliscono miseramente; la Guercia viene bandita in bagno e si fa un tentativo con l’*altro* trasportino, quello grosso, in cui comunque si incastra.
Niente da fare. Alla fine diventa una partita di biliardo con piccoli animali pelosi e la gatta viene pungolata dentro al trasportino con un tubo di cartone.
Victor, scemone, è faccenda più semplice. Peccato che rimanga solo un trasportino a misura di Guercia. L’unica soluzione è infilare il trasportino sul gatto – no, non viceversa: gatto tenuto fermo, trasportino-ino fatto scorrere in avanti.
Già qui ho perso vent’anni di vita, sei litri di sudore, la possibilità del paradiso viste le madonne che ho tirato e probabilmente anche la cittadinanza italiana causa eccesso di scurrilità.
I gatti vengono caricati sulla mia già stipatissima auto: un Victor sul sedile dietro in mezzo ai sacchetti della spesa, una Guercia sul sedile del passeggero.
Ovviamente – ça va sans dire – nel modo peggiore del mondo: con la grata girata verso di me.
Ho iniziato a sospettare un problema logistico quando, nel tentativo di cambiare marcia, avverto la netta sensazione di quattro artigli aggrappati alla manica.
ORRORE: le sbarre sono larghe, le zampe della Guercia CI PASSANO. In pieno.
Nel frattempo le vie di Milano si trasformano in tangenziale e la velocità supera i 100 km/h.
E io ho una gatta isterica attaccata al braccio.
Il tutto con un sottofondo di “MMMMOOOOOUUUUUWWWRR” proveniente da Victor, il gatto più scomodo del mondo. Che già di suo è una lagna, in più questa volta ha pure ragione di esserlo.
Mentre mi spuntano altri settantasei capelli bianchi e la mia aspettativa di vita cala di un altro lustro mi rendo conto con orrore che la Guercia sta evadendo. Evidentemente posseduta da Satana è riuscita a scardinare uno dei perni del trasportino e adesso ha ben DUE zampe fuori dalla grata. E ulula pure lei.

La cosa non è gestibile. Accosto in corsia d’emergenza pronta ad aggredire eventuali innocenti membri delle forze dell’ordine che possano sopraggiungere. Non accade per fortuna e almeno la fedina penale rimane intonsa. Giro il trasportino e lo incastro contro il cruscotto; la Guercia si rassegna o più probabilmente collassa e lascia perdere i tentativi di evasione.

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Per fortuna c’è chi è troppo scemo per ricordarsi di essere stato traumatizzato.
Il viaggio prosegue con un gatto che frigna, una gatta che ansima, una Valpur che piagnucola e si sente una merda fino alla destinazione.
Che sembra distare settecento km e invece è mezz’ora di macchina.
All’arrivo, con Victor in mano e un accenno di Parkinson, vengo accolta dal nuovo vicino e dalla sua pischerina Chiquita sul piede di guerra.
“Ah ma è un gatto? La scusi, la Chiquita è un po’ predatrice”.
Guardo quel chilo e mezzo di cane.
Soppeso i dieci chili di lince – scema, ma pur sempre lince – che ho in mano. Rido.
Penso sia isteria.
Un viaggio dopo l’altro i felidi vengono riposti in bagno e io crollo, tra una lettiera e una ciotola d’acqua, tra un Victor che come prima cosa cerca di lanciarsi nel cesso (e non sarebbe la prima volta) e una Guercia che si ritira sull’Aventino, ovvero dietro al bidet.
Ce l’abbiamo fatta. Bastano poche ore e i due famigli si ambientano. Due ore, mezzo chilo di crocchette del perdono (“Vi sto nutrendo! Dovete amarmi! Vi prego!”) e due cacche giganti.
Però ce l’abbiamo fatta.

E casa è davvero casa, adesso.

(RagaTTi, voi non lo sapete ancora, ma tra un mesetto arriverà qualcos’altro di piccolo, peloso e presumibilmente molto scemo ed entusiasta. Ci sarà di che ridere)

A wild Valpur appears

In questa intervista si nota quanto io sia una persona seria e matura.
Il concetto, però, è importante e ci tengo a esprimerlo: divertirsi e cercare letteratura d’evasione non è un crimine.

L'occhio della madre

Oggi è venuta a farci visita nel nostro studio – e con studio intendo il garage freddo e umido con una scrivania traballante sulla quale il sottoscritto imbratta le proprie carte munito di penna d’oca intinta nel veleno – la giacobina Valpur, al secolo Ester Manzini: critica, fustigatrice di prosa scadente, esperta di sopravvivenza nella gestione domestica dei felini e, soprattutto, scrittrice. Val, è un piacere averti qui con noi.

No, non è vero. Dillo che mi detesti, dillo!
… niente, era giusto per specificare che sono anche un filino paranoica, visto che lo avevi dimenticato. Comunque è un piacere essere qui!

Per cominciare, parliamo un po’ di te e della tua attività di scrittrice. Perché tu, come molti di noi, scrivi ma, a differenza di molti di noi, riesci effettivamente a dare a ciò che scrivi una forma definita e a pubblicare i tuoi lavori. Una domanda in due…

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Una Valpur a IoScrittore 2: gli incipit

L’avventura di una mediamente giovane Valpur a IoScrittore prosegue. E non è che ci voglia molto, visto che la prima fase non si è ancora conclusa e non c’è ancora modo di essere eliminati. Ma l’ottimismo è il profumo della vita eccetera.
Come ci dicevamo qualche tempo fa mi sono arrivati i quindici incipit; nel giro di tre settimane scarse li avevo già letti e valutati tutti. Precipitosa? Possibile, ma mi conosco e so che devo sempre ascoltare la mia prima impressione: forse non sarà accurata, ma mi fornisce una buona indicazione di massima circa il parere che finirò col farmi. In effetti, rileggendo i testi e i miei stessi giudizi a mente più fredda mi sono resa conto di non aver cambiato idea; qua e là ho sistemato le valutazioni – un mezzo punto in più per chi lo meritava, mentre le insufficienze tali sono rimaste – e corretto il tiro nel tono di alcuni commenti, ma il succo non è mutato.

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Piccolo cane, non preoccuparti. Puoi usare quei fogli come cesso in caso di giornata uggiosa. Sarà comunque un destino più nobile di quello preventivato.

Cosa ho letto? Generi diversi ma meno di quanto sperassi: poco, pochissimo fantastico, un pizzico di mistero e avventura e un’emorragia di narrativa generale/sentimenti con poco o niente di interessante. Che poi io non capisco, cosa mi significa “narrativa generale”? E perché nella quasi totalità dei casi non è distinguibile dal genere “sentimenti” se non per qualche romance che più romance non si può?
Ho distribuito due insufficienze gravi: un fantascienza così brutto e scritto a caso (neanche semplicemente male: proprio ad mentulam canis) che non riesco a definirlo altro che una presa in giro e un romance con un errore già nel titolo e una sfilza di minchiate fin da pagina uno. Due casi in cui verrebbe da chiedersi se:
-sia davvero indispensabile dedicarsi alla scrittura; insomma, è pieno di hobby interessanti e di certo gli autori hanno dei talenti da far fruttare. La padronanza della lingua e la capacità di raccontare storie però non sono tra essi. Giuro, credetemi, scrivere non è obbligatorio, non è che se ci si improvvisa scrittori si diventa più fighi, col pene più lungo o il culo più sodo. No, proprio no;
-gli autori abbiano terminato le scuole elementari, che so bene essere obbligatorie ma bho, il dubbio viene;
-sempre suddetti autori abbiano idea di cosa sia un libro e del tipo di requisiti necessari per aspirare a una pubblicazione.
Ho avuto la fortuna, in compenso, di incappare in tre gioiellini adorabili. Generi diversi – e in almeno un caso proprio quella “narrativa generale” che fatico a comprendere ma che in un singolo incipit ha perfettamente senso – ma tre storie divertenti, scritte in maniera avvincente, che mi hanno fatto desiderare di poter leggere l’intera opera. A questi tre autori auguro di tutto cuore di trovare un posto sugli scaffali perché sono bravi e se lo meritano. Gli offrirei gattini e biscotti se li avessi sotto mano.
Tutto il resto è noia.

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Di sicuro più interessante di molta roba che ho letto.

Non solo per una banale citazione musicale ma perché sul serio, mi sono trovata a sguazzare in un pantano di incipit in cui non succedeva assolutamente niente. E va bene, posso accettare un inizio loffio, un prologo che introduca le vicende in modo elegante, quasi sottovoce, però poi ci dev’essere un qualcosa da raccontare, uno stimolo che mi faccia chiedere da lettrice “Sì, però poi cosa succede?”. In dieci casi su quindici tutto questo non esiste; sproloqui, sproloqui ovunque. C’è chi li riempie di boria e di uno stile pesante – e a costoro direi: se volete farvi una sega andate in bagno e autocompiacete voi stessi senza sensi di colpa, che non diventerete mica ciechi; la scrittura è un’altra cosa. C’è la fiumana di stili piatti e monotoni che fanno sembrare questi incipit temini di scuola media, e io dico, cara colleganza con una tastiera sotto le dita, ma davvero vi divertite a scrivere così?
E io lo so, lo so benissimo che sarà qualcuno pescato da quest’ultimo gruppo a sfondare. Niente letteratura di genere, non sia mai che poi il popolo bove si metta in testa che ci possano essere ottimi libri di evasione, ben scritti e divertenti; niente di sopra le righe, di coraggioso, di originale, che se rischi poi inciampi e cadi e muori. Peccato che l’editoria italiana stia morendo proprio per quest’eccesso di prudenza e carenza di metaforiche palle.
Che questo giudizio sia influenzato dai miei gusti personali? Per carità, a me piacciono le esplosioni, i laghi di sangue, i drammoni e le avventure, però non solo. So – dai, almeno questo me lo concedo – distinguere una storia con del potenziale e ben narrata, anche se non rientra nei miei canoni standard di Mazzate e Lacrime.

Ogni tanto faccio un salto sul blog del concorso e mi viene anche da commentare, poi mi rendo conto di quanto sia demenziale la struttura della community (puoi fregare i nickname altrui, spacciarti per chi vuoi, non c’è modo di rispondere direttamente ai post né di linkarli, solo una sfilza di commenti uno sotto l’altro e tanta confusione) e mi si sgonfia la poesia. Noto una certa menosità diffusa, qualche sintomo di “lei non sa chi sono io” e di “no e non me ne frega una beneamata minchia” e tanta, tantissima ansia da prestazione.

Io? Io non è che mi aspetti molto. Non ho scritto qualcosa di commerciabile da un grande gruppo editoriale, è una nicchia nella nicchia e mi verrebbe anche da chiedermi chi me l’ha fatto fare di iscrivermi a IoScrittore.
Tutto sommato, nonostante gli incipit da latte alle ginocchia, mi sto anche divertendo; c’è quel brividino di attesa, la prospettiva di ricevere dei commenti, l’entusiasmo di leggere qualcuno che ti fa dire “oddio, vorrei essere te” ma anche “… ecco, invece meno male che non sono te”. Non so se sarò nei 300 superstiti alla prima fase e quasi di certo non arriverò in finale; nessun editor mi noterà (se non forse per chiedersi cosa mi sia venuto in mente di scrivere una roba del genere) e pace. Però intanto avrò lo sprone per finire ‘sto dannatissimo libro, che una gravidanza con parto annesso sarebbe una cosa più breve e semplice da affontare.
Vedremo. E vedremo anche quale sarà l’effetto di aver scelto un nickname – segretissimo – maschile per un testo appartenente a un genere che di donne autrici ne vede poche. Magari almeno lo stigma dei cromosomi XX me lo eviterò.

L'uomo che non c'era

Erin E. Keller

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Pensieri disgiunti in universi congiunti.

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Francesca Ed Cappelli

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I racconti di Riccardo Bianco

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Tutto può esser oggetto di discussione, se ben ragionato.

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Con amore e squallore

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