“Harry Potter and the Cursed Child”: no, non ne avevamo davvero bisogno.

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[ATTENZIONE SPOILER A MANETTA]

C’era una volta – tanto, tanto tempo fa – tanto, davvero – una Giovane Valpur circa diciassettenne. Questa Giovane Valpur, col suo cuoricino ancora tenerello e fatto di sugar&spice invece che di catrame, astio e ansia, nel riprendersi dalla prima, cocente delusione d’amore si dedica dapprima alla visione, quindi alla lettura delle vicende di questo maghetto che si chiama Harry Potter. Correva l’anno duemilaepochissimo e l’Ordine della Fenice non si era ancora affacciato alle librerie.
Sarebbe accaduto di lì a qualche mese e avrebbe segnato l’inizio di una tradizione breve ma intensa: aspettare l’avvento del nuovo capitolo della saga, chiudersi in camera al buio con solo una lucina e una scorta di dolci e divorare pagina dopo pagina – in un inglese all’epoca ancora un po’ zoppicante ma pieno di zelo e buone intenzioni – l’intero tomo prima del sorgere del sole.
Begli anni. La passione non cala e si incastra saldamente tra le fibre dell’essere della Sempre Meno Giovane Valpur, nonostante quel filino di delusione per l’epilogo molto meh.
Flashforward: 2015. O 2016, chi si ricorda. Comunque la Decisamente Non Poi Così Giovane Valpur apprende, insieme al resto del mondo, che ci sarà un’ottava storia ambientata nel Potterverse, “Harry Potter and the Cursed Child”. Protagonista la nuova generazione, quella pletora di marmocchi dai nomi che viaggiano tra l’imbarazzante e l’inquietante (“Ciao, ti chiami come il preside che mi ha manipolato per metà della mia vita e come secondo nome hai quello dello stalker di tua nonna morta MA TRANQUILLO TI VOGLIO BENE”) (Questo in effetti spiega parecchie cose che vedremo più avanti) figli di genitori illustri.
Non un libro, occhio: uno spettacolo teatrale che ha debuttato in quel della perfida Albione a inizio giugno 2016. In quei giorni su Twitter impazza l’hashtag #keepthesecret, ovvero un invito a chi avesse assistito alla premiere a non divulgarne la trama. L’internet risponde con una sonora pernacchia e iniziano a leakare informazioni.
Informazioni
deliranti.
Inquietanti.
Si parla di una figlia di Voldemort cugina di Cedric Diggory che è tipo un Mangiamorte.
Le grasse risate proprio: non poteva che essere una farsa, un modo bizzarro per depistare i curiosi. Figuriamoci, robaccia del genere manco nella peggiore delle fanfiction con le
Mary Sue Kattyve coi capelli di colori improbabili e il sangue di unicorno!
L’interesse dura il giusto; c’è chi ci crede, chi no, chi preferisce soffermarsi sulla scelta di un’attrice di colore per Hermione. Quest’ultimo sembra essere il problema principale, la maggior fonte di flame e litigate online. Posto che la qui presente ritiene che il problema non si ponga – teatro e cinema sono due media diversi e quindi sticazzi per il casting, se hanno scelto una tal attrice sarà ben la migliore per quel ruolo – e posto che la Rowling dovrebbe riflettere un paio di volte prima di rilasciare dichiarazioni online – capisco che il volemosebbene è cosa buona e giusta, ma definire sia Emma Watson che
Noma Dumezweni come “perfette per Hermione” mi fa sorgere qualche dubbio su una delle due – se ne sono lette davvero di ogni; razzismo spudorato o mascherato da purismo letterario, elucubrazioni sull’incarnato di Hermione brandendo il catalogo Pantone…
Oh, sweet summer children. Ma davvero pensavate che fosse QUESTO il problema reale di The Cursed Child?
Folli.
Giunge, nel mentre, la fine di luglio e con essa la release ufficiale dello script di “Harry Potter and the Cursed Child” sotto forma di libro. Hype per me non pervenuto: me ne fregava pochissimo, al punto da ricordarmene giusto allo sbarco a Gatwick vedendo le pile di libri in aeroporto.
“Ma sì”, mi sono detta. “Leggiamolo”.
Ora so. Ora capisco: quel disinteresse, quel dimenticarmi dell’esistenza stessa dell’opera era un tentativo del mio inconscio di proteggermi.

Perché, signore e signori, “Harry Potter and the Cursed Child” è una delle ciofeche più improbabili che io abbia mai letto. Sono davvero allibita da tanta bruttezza: se avessi avuto delle aspettative non so cosa sarebbe successo! No perché quelle voci, quelle informazioni ridicole erano vere.
Erano.
Tutte.
VERE.

Ora, immagino sia cosa nota la mia discreta esperienza in ambito di
fanfiction. Mi piacciono le fanfiction brutte, trash e demenziali. Ma innanzitutto sono gratuite, sono scritte per divertirsi e non c’è dietro un’autrice più ricca di Queen Lizzie che ci caccia questo scempio in mezzo al canon!

Ma andiamo con ordine.
Nell’approcciarsi a “Harry Potter and the Cursed Child” occorre tener presente che non è un romanzo ma uno script: niente descrizioni, solo dialoghi e poca introspezione. E meno male perché la poca che c’è fa venir voglia di percuotere i personaggi con una putrella di ghisa. Non sarà quindi della forma che mi lamenterò.
Il dramma è la sostanza: la trama è inconsistente e in costante contraddizione con i sette libri precedenti (con strafalcioni anche grossi che vedremo più avanti), i personaggi sono nella quasi totalità (una singola eccezione) simpatici come le emorroidi dopo un’indigestione di cibo messicano. I vecchi sono più OOC che IC, i nuovi sono insopportabili e campati per aria.

Il sipario si apre – è proprio il caso di dirlo – con la stessa scena che ci aveva salutati alla fine dei Doni della Morte: siamo al binario 9 ¾ e Albus si appresta a iniziare Hogwarts. Ansia da prestazione, non voglio finire a Serpeverde, vai tra figliolo che ti voglio bene lo stesso, e comunque lo stalker di nonna morta era Serpeverde. Sta’ sinz penzier.
A bordo dell’Espresso Albus (non chiamatelo Al che mi si incazza, oh) fa amicizia con l’unico personaggio che non ho desiderato schiaffeggiare con lo scopino del cesso per tutto il libro:
Scorpius Malfoy. Poraccio, con un nome del genere non poteva che saltar fuori un disagiato, e infatti Scorpius è un piccolo nerd sfigatissimo e scodinzolante che tutti odiano perché – rullo di tamburi – pronti al primo WTF del libro? – girano voci che sia figlio di Voldemort.
Let that sink in.
Figlio.
Di.
Voldemort.
Che si sa, Draco a quanto pare aveva la conta spermatica bassa e quindi Lucius ha mandato indietro nel tempo mamma Astoria per farla ingravidare da Voldemort.
No, questo almeno per fortuna non è vero, ma direi che si inizia a intuire il livello di WTFaggine del tutto.
Già in questa prima scena compare la mia nemesi, il mio odio incarnato: Rose Weasley (ah, facciam finta che sia figlia unica, che tanto Hugo non viene mai neanche nominato. Idem per James e Lily jr. che vengono citati di sfuggita ma in realtà sono dei cartonati). La figlia di Hermione – della coraggiosa, egualitaria e battagliera Hermione – se ne esce con “Albus, non puoi sederti con lui, è un Malfoy! Che schifo! Dovrebbe avere una fila di sedili per quelli come lui bleah!”.
Rose che è sostanzialmente un pregiudizio ambulante, che dà retta ai pettegolezzi e diventa una bulla non riesco ad accettarla. Per fortuna Albus e Scorpius diventano amici (e già da pagina tre io tifavo per il limone che non c’è stato) (La Rowling è stata vigliacca in più di un senso e ne parleremo dopo) e il Cappello li smista entrambi a Serpeverde.
Qui parte il dramma. Albus ha i complessi di inferiorità e quindi inizia a odiare suo padre. Che nel frattempo è regredito ai quindici anni urlanti e scleranti dell’Ordine della Fenice, perché nel corso della storia fa e dice cose ORRIBILI (tra cui ammettere che a volte vorrebbe che Albus non fosse figlio suo o gridare in faccia a Sua Maestà Minerva McGranitt “Che cazzo ne sai tu di figli che non ne hai mai avuti”. Io ero sconvolta).
Gli anni passano in fretta e non ci si sofferma troppo: spettacolo teatrale, tempi contingentati eccetera. No problem.
La trama prosegue con Albus e Harry che si odiano sempre di più, Ginny non pervenuta, Ron che ogni tanto salta in scena solo per ricordare che esiste e altro nonsense assortito. Mamma Astoria muore e la cosa viene smaltita in tre righe, e ok che è uno script e non un libro, però insomma, così è davvero squalliduccio.
Il trigger per l’intera vicenda è la comparsa del vecchio Amos Diggory e della sua badante-nipote
Delphini (no ma bel nome anche tu eh). Amos chiede a Harry di tornare indietro nel tempo con la Giratempo scoperta in possesso di Theodor Nott per salvare Cedric durante il Tre Maghi. Harry ha un guizzo di buon senso e gli dice che dev’essere la senilità a parlare, ma accusa il colpo. Albus nel mentre fa amicizia con l’ultraventenne Delphi e i suoi capelli argentati e blu. L’odore di fanfiction si fa sempre più intenso ma andiamo avanti.
Delphi si offre di aiutare i due pischelli – Albus e Scorpius, il fido sidekick – a recuperare suddetta Giratempo: devono solo fuggire dall’Espresso di Hogwarts e correre in ufficio da Hermione – Ministro, lo sappiamo – che custodisce l’ultima Giratempo.
E qui piovono
WTF come se non ci fosse un domani. Prima la strega del carrello dei dolci si scopre essere un mostro secolare messo lì per impedire agli studenti di scendere dal treno; pare che i Malandrini e Fred&George ci avessero provato… ma non ha senso. Suddetta strega infatti è una creatura mostruosa con tanto di artigli affilati pronta a scagliarsi contro gli studenti; buttata lì così dopo sette libri non regge, soprattutto perché Albus e Scorpius non mettono in atto chissà che stratagemma. Si limitano a saltar giù dal treno e ciaone. Si rimane lì così, un po’ appesi, di fronte a queste trovate troppo facilone, diciamo pure stupide.
Stupidità che troviamo anche – incredibile – in Hermione. Hai un manufatto che doveva essere stato distrutto e cosa fai? Lo nascondi. In ufficio. Lasciando in giro millemila indizi e sciarade per far sì che venga trovato. Sbaglio o non ha senso? Così come è ridicolo far saltare fuori della Polisucco (ricordiamo, una delle pozioni più lunghe e difficili da produrre, con potenzialmente effetti indesiderati gravissimi) dal taschino di Delphi per permettere ai due ragazzi di infiltrarsi al Ministero.
Long story short, Albus e Scorpius iniziano a fare avanti e indietro nel tempo per cercare di:
-salvare Cedric;
-no, cazzo, se lo salviamo non nasce Rose!
-però aspetta, se lo umiliamo per non farlo arrivare in fondo alla terza prova si prende male e diventa Mangiamorte;
-aspetta aspetta stiamo incasinando l’universo.
Sì perché questi due deficienti viaggiano nel tempo un numero improponibile di volte, visitando ogni volta un universo differente e terribile: c’è appunto quello in cui Rose non è nata perché Ron è rimasto con la Patil e Hermione è diventata una professoressa acidissima perché zitella, c’è quello in cui ha vinto Voldemort e tutto invece che essere creepy e spaventoso è imbarazzante.
La Rowling – o più probabilmente i suoi coautori – fa un casino pazzesco con i viaggi nel tempo. Sembra di essere in quella puntata dei Simpson in cui Homer sbaglia a riparare il tostapane.
Saltabeccando tra un passato diverso e un futuro alternativo salta fuori che Delphi, nell’ordine:
-non è nipote di Amos Diggory;
-adesca i minorenni (è super inquietante il suo atteggiamento verso Albus, giuro);
-fa dentro e fuori da Hogwarts senza che nessuno si ponga il problema di un’ultra ventenne sconosciuta in giro per i corridoi;
è figlia di Voldemort e Bellatrix (chiediamoci tutti “ma quando cazzo l’ha partorita?”), allevata da Rodolphus Lestrange (che di preciso quando sarebbe uscito da Azkaban, visto mi risulta sia stato arrestato dopo la Battaglia di Hogwarts?) in quanto importantissima per una profezia che parla del ritorno di Voldemort (sì ma profezia fatta DA CHI? QUANDO? COSA?) e bramosa di conoscere il vero padre.

Dai, su. Vi lascio qualche minuto per immaginarvi il coito. Divertitevi. Una roba tipo l’hawkward hug a Draco alla fine dell’ultimo film ma senza vestiti.
Se avete finito di vomitare possiamo tornare a noi.
Da un lato abbiamo Albus e Scorpius che fanno cazzate, dall’altra i genitori che cercano di metterci una pezza. Delphi è tornata di nuovo indietro nel tempo fino al 1981 per uccidere Harry e “salvare” Voldemort dal rimbalzo dell’Avada Kedavra, facendosi da lui conoscere; i due pischelli la seguono e gli adulti fanno altrettanto.
Perplessi?
Ne avete tutte le ragioni. Come fanno Harry&Co. A tornare indietro? C’è solo una Giratempo, l’ultima, quella di Nott!
Ahahah. No.
Deus ex Machina! Yeeee! Draco fa un gioco di prestigio e salta fuori che aveva pure lui una Giratempo in soffitta ma figa eh, tutta d’oro, subacquea e coi brillantini.
No ma tranquillo, ha tutto perfettamente senso.
I nostri eroi si incontrano nel 1981, neutralizzano l’inutile Delphi e non salvano James e Lily senior perché far casino col tempo non è una buona idea. Duecento pagine e ci siamo arrivati finalmente.
In teoria – e anche in pratica perché basta prendere i libri e LEGGERE le prime pagine scritte chiaramente – a Godric’s Hollow, nel prosieguo della scena chiaramente mostrato nella storia, sarebbero dovuti saltar fuori anche Hagrid e Sirius ma niente, non pervenuti.
Il tutto finisce a tarallucci, vino, amore paterno, abbracci e testicoli che rotolano in lontananza.

Vi sembra confuso questo riassunto? Lo è perché tale è il materiale di partenza. Ho tralasciato qualche dettaglio per concentrarmi sul succo della trama, ma fidatevi, non migliora la situazione.
“Harry Potter and the Cursed Child” è problematico su settantordici punti di vista, ma dopo aver mostrato cosa non va nella trama mi soffermerò sulle due note più dolenti.
Innanzitutto i personaggi.
-I giovani sono, come dicevo, trascurabili se non antipatici. James, Hugo e Lily non compaiono, cosa strana perché andando a esaminare i primi tre anni di Albus a scuola avrebbe dovuto interagirci. Ma va bene, va bene, script e non libro, tempi ristretti, quello che volete, ma a casa mia questa si chiama pigrizia. Sciatteria. Scorpius è carino, è tenero e mi sta simpatico; forse i Malfoy sono l’unica nota positiva nell’intero romanzo. Albus è forzato, tormentato per forza, mai soddisfatto, mai capace di porsi obiettivi. È semplicemente antipatico e sono felice di non doverne leggere mai più. Rose è un problema grave per i motivi che ho già espresso. Al di là del suo essere “figlia di”, Delphi non è caratterizzata; è piatta, poco interessante sia come cattiva che come personaggio con cui provare a empatizzare. Lei e i suoi stupidi capelli e il suo tatuaggio pacchiano: non bastano gli accessori per renderti affascinante, cocca.
-I vecchi… dove sono? Tolto Malfoy che mostra di essere cambiato ed evoluto (è un buon padre e mostra di avere un cuore, anche se il cervello non è pervenuto. Una Giratempo in cassaforte per tutto quel tempo? Ma sei serio?) gli altri sono terribili. Harry è un padre inqualificabile, uno che regala al figlio maggiore il suo fichissimo Mantello dell’Invisibilità e al mediano la copertina sgualcita in cui è stato deposto davanti a casa Dursley. Lily si sarà beccata un fazzoletto usato, immagino. Io capisco tutto, l’essere orfano, il peso delle responsabilità… ma questo ritorno al peggio di sé, pronto a insultare chiunque tenti di aiutarlo o gli dica che forse non ha sempre ragione mi è risultato alieno, lo stridio di unghie sulla lavagna. Ron, il leale, coraggioso Ron che accetta di essere il secondo perché il suo amico ha bisogno di lui, si è trasformato in un minchione che fa battute fuori luogo e parla solo di cibo, proprio da miglior – no, anzi, peggior – tradizione ficcynara. La meravigliosa Hermione regge nella cornice dell’opera, nel “presente” effettivo in cui la vicenda si snoda e nella sua versione ribelle nell’universo alternativo “Voldemort vince”, ma la professoressa zitella è offensiva. In uno dei mondi possibili, ve lo ricordo, non sposa Ron che invece si riproduce con la Patil e Hermione rimane da sola diventando una stronza peggiore di Piton… e il tutto perché non ha sposato Ron. Tutto qui. Il suo valore come donna adulta è determinato dal rapporto con un uomo, non da ciò che è – intelligente, caparbia, geniale, pronta a tutto per chi ama – no, è Ron a renderla meritevole di stima. Lasciata da sola diventa una cafona. L’ho trovato ripugnante. A Ginny non va meglio: la combattente di fuoco dei libri (già smorzata e trasformata in noia a pedali nei film) diventa una mamma noiosa e lasciata in un angolino a far la calzetta o poco più. Era l’occasione per farle spaccare qualche culo ma non sia mai che si sottragga screen time all’eroe protagonista.
Gli altri della vecchia guardia, soprattutto Piton e Silente, sono stati piazzati lì per mero fanservice e per ricordarci che ehi, Piton era BUONO LUI AMAVA LILY ERA UN SANTO. No, non è vero, era un uomo di merda che ha rovinato l’esistenza a un bambino la cui unica colpa era di essere figlio delle persone sbagliate. Che poi si sia comportato da eroe è un dato di fatto, ma non facciamo passare Piton per paladino immacolato che anche no.

E adesso passiamo a un altro, immane problema di questo libercolo: queerbaiting. Albus e Scorpius hanno tutte le caratteristiche della coppia. Pagina dopo pagina ci vengono presentati come sempre più legati, spesso in maniera anche “imbarazzante” per loro stessi (sono molto “fisici” nel dimostrare il reciproco affetto). Hanno una bella relazione solida al cui confronto le cottarelle per Rose – da parte di Scorpius – e Delphi – brrrr, da parte di Albus – risultano slavate e messe lì giusto per far capire che oh, non sono mica ghei.
Ma che male c’è? La Rowling, con tutto il bene che le voglio, è una gran vigliacca che ha evitato accuratamente di inserire orientamenti sessuali diversi dalla palese eterosessualità nei suoi main characters, salvo pararsi il culo in corner a saga finita con “Silente è gay”. Ok, va bene, hai sbagliato una volta ma puoi rifarti, puoi regalarci uno spiraglio di arcobaleno in quest’opera nuova.
E invece niente. Scherzone. Tutti etero e amici come prima.

Vedete, “Harry Potter and the Cursed Child” non è solo brutto e pieno di buchi di trama. “Harry Potter and the Cursed Child” è fastidioso, è goffo e raffazzonato, pieno di ingenuità che mi aspetterei da una Valpur diciassettenne che scrive di quel Remus innamorato di Sirius che va a recuperarselo nell’Inferno Dantesco (giuro, l’ho fatto). Che mi aspetterei da noi fanwriter col gusto del trash o semplicemente giovani e naif e poco professionali.
Non dalla madre di quest’universo. Non dalla Rowling.
Non comprate questo libro, davvero.
Ci sono storie più belle lì fuori, mondi immaginari in cui il Potterverse è rispettato e trattato come merita.
Perché quest’ottava storia sarà pure canon, ma è così brutta che mi è venuto il reflusso gastroesofageo.

… e poi il problema era Hermione nera.
Bof.

Storie di donne: “La tenda rossa”

91duubslrzlQuando ho letto “Le Nebbie di Avalon” ero a un momento cruciale della mia esistenza. Avevo appena fatto la maturità e mollato un moroso dopo due anni – che quando ne hai diciannove sembrano tantissimi -, si approcciava l’università col suo carico di interrogativi e paranoie ed ero a Parigi.
Bam, colpo di fulmine, libro che chissà come mi ritrovavo sempre tra le mani, che ho riletto appena dopo aver finito l’ultima pagina, che ho ripreso decine di volte negli anni successivi fino alla grande delusione.
Quel libro mi parlava. Mi ci ritrovavo: l’impazienza di diventare qualcuno, le delusioni, i fallimenti… erano fenomeni che avevo vissuto o che sapevo avrei incontrato. Per questo Avalon per me è stato per anni un luogo sicuro, un rifugio nei momenti peggiori; per questo ha fatto così male non riuscire più a leggere la storia di Morgana senza provare disagio.
Ora ho trovato un romanzo che no, non va a riempire quel vuoto, ma mi dà la netta sensazione di sollievo, di guarigione.
“La tenda rossa” di Anita Diamant è tristemente quasi introvabile in italiano, sebbene non sia poi un libro così vecchio. L’ho letto in lingua originale senza aspettarne la traduzione perché c’era qualcosa – da qualche parte lì, in quarta di copertina, tra le recensioni di Goodreads – che mi suggeriva di farlo subito.
Perché anche adesso sono in un momento di transizione. I trent’anni, le responsabilità, la casa nuova, il “cosa voglio fare da grande” che incombe e non riesco a capire se grande lo sono oppure no… insomma, un classico, no?
Questo libro è arrivato quando ne avevo bisogno.
La storia è tutto sommato semplice: Dinah, l’unica figlia di Giacobbe, quella di cui la Bibbia parla a stento e solo come fattore scatenante delle vicende della sua tribù, racconta come sono andate le cose dal suo punto di vista. E non solo il suo: quello delle sue madri, sorelle tra di loro nonché mogli del patriarca – Leah che l’ha messa al mondo, Rachele che le ha insegnato le arti di levatrice, Zilpah e le sue visioni, la gentile Bilhah. E ancora la storia di Rebecca, l’altera, nobile e fredda madre di Giacobbe, e di Re-nefer, madre del grande amore di Dinah, e di Meryt, sua amica fino in fondo. Di altre, tante altre donne, tutte all’ombra della tenda rossa che dà il nome al romanzo: il luogo in cui le donne della tribù si riuniscono nei giorni del ciclo per raccontarsi storie, riposare e venerare le proprie dee.
La Diamant è ebrea ed è molto ferrata nella sua stessa mitologia; ha persino scritto svariati manuali sull’ebraismo moderno ed è abbastanza evidente, leggendone la biografia, che sia una persona religiosa. Eppure ciò che scrive trascende i limiti del culto. Prendere un personaggio chiave della Bibbia come Giacobbe e renderlo umano, estrapolarlo dal contesto mistico in cui è inserito, lo trasforma in nient’altro che una persona. Affascinante, intelligente, meschino e fragile: si arriva a odiarlo e a provare pena per lui, eppure in nessun momento ho percepito la narrazione come irrispettosa.
Sì, ci sono anche gli uomini: Giacobbe e Laban, nonno di Dinah e padre delle sue madri, l’amato Shalem e Benia, Giuseppe e tutti i suoi fratelli… ma la tenda rossa vive senza di loro, per quanto essi vi orbitino attorno.
Questo romanzo parla di donne alle donne, e non è una frase fatta. La moltitudine di personaggi femminili che ne popolano le pagine è viva, vera e per niente imbellettata. Leah ama sua figlia ed è sveglia e brillante, ma è anche prepotente e materialista. Rachele? Bella, affascinante ma capace di portare rancore per tutta la vita. Persino la quasi mitologica Rebecca è crudele e vanesia, eppure potente, e la povera Ruti, l’ultima moglie del vecchio Laban, viene spesso maltrattata dalle altre donne, che convivono con il senso di colpa per non essere state capaci di includerla. Non ci sono sante o eroine in questa storia, solo persone con un sacco di difetti. La cosa meravigliosa, però, è che questi ultimi – e parliamo di reali aspetti negativi, non di piccoli capricci da diva – non impediscono a nessuna di esse di trovare l’amore. Non però quello del “principe azzurro” (che qui non c’è proprio, da nessuna parte, anche a cercarlo col lanternino): quello delle altre donne, delle nostre sorelle che nonostante tutto ci tengono per mano e ci accompagnano durante la vita.
Quella di Dinah, di vita, è tutt’altro che semplice. Prima bambina che vuole diventare donna, curiosa e ingenua e un po’ relegata ai margini di una società fatta di madri – e quindi donne adulte che vivono l’esclusività della tenda rossa – e di uomini – un piccolo esercito di fratelli assortiti nati dalle quattro madri. Poi gettata nel mondo adulto in un lampo di gioia che si tinge subito di sangue… insomma, c’è poco da spoilerare, la storia è quella raccontata nella Bibbia, ve l’ho detto, con un twist. Shalem non la rapisce e violenta ma è lei a sceglierlo, causando una faida tra le famiglie che culmina col massacro del principe canaanita e della sua stirpe e la fuga di Dinah.
Via dal passato, dalle madri che soccomberanno alla disperazione, all’età o alle minacce del parto, con una maledizione sulle labbra: Giacobbe e i suoi figli pagheranno per quanto hanno fatto.
E così è, perché i figli di colui che si farà chiamare Israele per allontanare la maledizione – senza riuscirci – troveranno la rovina e venderanno Giuseppe agli egizi… ma questa è un’altra storia. Viene narrata, certo, ma non è centrale: all’inizio questo relegare la leggenda che conoscevo così bene alle ultime pagine mi ha spiazzata… insomma, è roba grossa, ci hanno fatto pure il film e tutto il resto. Poi però ho capito: non è di Giuseppe che stiamo parlando. È Dinah che racconta, Dinah che ha sofferto e attraversato amore e odio per approdare alla serenità e all’amicizia.
Pensateci: quanto è difficile, in un romanzo commerciale, trovare raccontata la vera amicizia tra due donne? Quante volte i personaggi femminili sono rivali, oppure accostati senza approfondirne il legame? “La tenda rossa” dedica ampio spazio a questi sentimenti ed è meraviglioso. E non solo: il sesso, la maternità, lo strazio della nascita e della perdita, le mestruazioni… tutti temi che se vengono raccontati spesso lo sono sottovoce, con perifrasi e dico/non dico. Qui no, è tutto normale, è parte della vita e non c’è nulla di vergognoso in questi argomenti. Una boccata d’aria fresca, davvero.
La vicenda è raccontata in prima persona da Dinah, che ci prende per mano fin dal prologo e ci fa sedere con lei davanti a un fuoco per narrarci la sua lunga vita.
Sono arrivata all’ultima pagina con le lacrime agli occhi e un mezzo sorriso in faccia. Tutto ha una fine ma forse no, perché continuiamo a vivere nel ricordo del prossimo e in quello che abbiamo lasciato al mondo. E insomma, dopo trecento pagine di patimenti e perdite e sangue è consolatorio avere un finale dolce, di una malinconia pulita e rassicurante.
“La tenda rossa” non è perfetto, ma non importa. Anche questo libro mi ha parlato e mi ha lasciato tanto. Leggetelo perché è molto più che una semplice, bella storia ricca di avventura.
Leggetelo perché a me ha lasciato la sensazione di guarire qualcosa che nemmeno sapevo stesse soffrendo.

Lettera a un apprendista scrittore (come me)

desperateaboutbillsCaro apprendista scrittore, sono come te. Ricordatelo molto bene perché sostanzialmente io sono una Signora Nessuno come tante ce ne sono al mondo, solo con qualche anno di esperienza, livore e rosicamenti sulle spalle.
Ho iniziato a scrivere che avevo diciott’anni e a sguazzare nel torbido mondo dell’editoria un paio d’anni dopo, facendo principalmente un gran casino prima di raccapezzarmi e mettermi a fare le cose a modo. E vuoi sapere, caro apprendista scrittore, cosa intendo per “a modo”?
Senza prendersi sul serio. Che sennò non se ne esce più.
Come forse avrai letto se bazzichi per queste pagine, caro apprendista scrittore, ultimamente sto partecipando a IoScrittore – sai, torneoneONE in cui ci si valuta a vicenda e si vincono ricchi premi e cotillon – e diciamo che ecco, ho passato la prima fase. Mica me lo aspettavo, sai? Col genere che scrivo io di solito arrivano pomodori e cavoli fradici, non certo i reggiseni lanciati da fan sdilinquite. Il che è un peccato, perché avrei giusto bisogno di sistemare il mio cassetto dell’intimo, che piange miseria.
E niente, dicevo, ho passato questa prima fase con tanti commenti entusiasti che mi hanno regalato un paio di cm di altezza in autostima, portandomi quasi nella media nazionale, e la possibilità di gironzolare ancora un po’ nel mondo che circonda questo torneo. Che, manco a dirlo, è uno spaccato abbastanza fedele di quella che è la fauna scrittoria italiana: quindi partiamo dal particolare e inoltriamoci pure nel generale, tanto il discorso che sto per farti vale per tutti.
Vedi, caro scrittore in erba, spero non ti offenderai. Quello che sto per dire non è assolutamente rivolto a te. Figuriamoci. Tu sei la fulgida eccezione che conferma la regola. Che te lo dico a fare?
Però ecco, questa fauna non è mica tanto bella.
Siccome i partecipanti a IoScrittore sono quasi quattromila e i selezionati giusto trecento, è ragionevole affermare che ci siano circa tremilaesettecento esclusi.
Questi numerosi insoddisfatti reagiscono in svariati luoghi del web – principalmente sul blog del torneo stesso – nel peggiore dei modi.
Il recensore negativo è un incompetente, un infame, un malizioso che mira solo ad affossare il Grande Talento (e cerca di capirmi, caro apprendista scrittore: Grande Talento una beneamata minchia, perché nella quasi totalità dei casi si tratta di libridimerda), un automa schiavo del sistema, del gregge di ignoranti che non colgono la Suprema Poesia Dell’Artista.
Ecco, no.
Se su dieci persone ben dieci ti dicono che quella tal cosa non va bene non è che non hanno capito, è che tu – non tu tu, caro apprendista scrittore, figurati – scrivi col culo. Punto.
E fidati, fidati di me, non è la fine del mondo. Scrivere è bello, io stessa ho una dipendenza dalle storie che mi porta a macinare libri e pagine a un ritmo poco decoroso. Però c’è di meglio nella vita. C’è altro. Essere uno scrittore non ti rende migliore degli altri, non più del vicino di casa che strimpella Battisti su una chitarra scordata o che si improvvisa sassofonista.
No, ok, forse un po’ meglio del sassofonista sì. Almeno non scassi il cazzo al pross-ah, no! Scherzavo! Perché quando sei scrittore mica devi esserlo per te, che sennò che gusto ci sarebbe? Siilo per gli altri! Sbandiera tutto il tuo processo creativo! Rompi i cabbasisi all’internèt tutta per dimostrare che ehi, tu sei Oltre, c’hai la sensibilità.
E mentre lo fai, mi raccomando, premurati di non imparare il buon senso, l’umiltà e l’autoironia.
Perché vedi, caro apprendista scrittore, accettare le critiche è così cheap.
(Nell’improbabile caso che tu non sia dotato di suddetta autoironia specifico: sì, sono ironica)
Dai, torniamo seri un istante, ti va, caro apprendista scrittore?
Ho visto reazioni scomposte a giudizi perfettamente legittimi. Che poi ogni giudizio lo è: è diritto di tutti dire “la tal opera mi ha fatto sonoramente schifo”.
Anche così, senza giustificazioni che non ti sono dovute, è un’opinione lecita. Hai scritto qualcosa, l’hai dato in pasto a un lettore, a questo lettore semplicemente non è piaciuta. Fine.
Non è che se ne muore. Se ti vengono dati consigli puoi farne tesoro o anche no, non te lo dice certo il medico e non fa mai bene essere spugne che assorbono tutto ciò che il prossimo dice. Ma se questo prossimo ti fa notare un’incongruenza non è lui a essere stronzo, sei tu che hai scritto, come dicevo prima, col culo.
E lo ammetto, faccio candidamente coming out: mi sono un po’ stancata di questa menosità, dell’intoccabilità dell’Artista di stocazzo. Mi sono stancata di leggere recensioni negative su Amazon che a un sacrosanto “non mi è piaciuto, mi ha annoiato” si vedono rispondere da stuoli di prefiche inorridite che minacciano calamità e rappresaglia e CuginiDellaPostale e “la recensione è falsah! SEISOLOINVIDIOSA!”.
No. Mo’bbasta. Avete rotto tre quarti di minchia. Voi, suffragette della recensione positiva a tutti i costi, e ancor più voi, autoruncoli supponenti che sguinzagliate più o meno consapevolmente – propendo per il più – il vostro esercito della salvezza.
Ti do un consiglio, caro apprendista scrittore: quando ti dicono che la tua storia è brutta forse hanno ragione. Non necessariamente, ma forse davvero c’è qualcosa che non va. Chiaro, se il commento è un “Ahahah chemmerda muori male autore puzzone” è lecito che ti venga il dubbio si tratti di un troll, ma di fronte a pareri – pareri, bada bene, non verità pretenziose – anche ben argomentati fatti due domande, datti due risposte e beviti qualcosa in compagnia degli amici, perché per quanto scrivere sia bello ci sono cose più importanti.

Scrivi e divertiti, goditela perché è una figata quella sensazione di creare mondi e inventare storie. Però, per cortesia, fattela una risata. Giuro che si vive meglio e non si passa per mentecatti.

(E documentati, per dio. DOCUMENTATI perché se leggo un’altra volta di gente che scrive di roba che non sa senza aver approfondito il genere giuro che spacco qualcosa)

(Not so) Unpopular Opinion – Game of Thrones (mi) ha rotto il cazzo.

 

Sono una di quelle che è approdata alle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco con qualche annetto di ritardo rispetto al mondo ma comunque in anticipo rispetto all’uscita della serie tv. Anzi, a dirla tutta ai tempi è stato proprio l’annuncio della serie a farmi prendere in mano i libri.
Gaso a mille! Epicità! DRAGHI! WOOHOO!
E adesso, a distanza di sei anni, mi trovo qui a mugugnare e borbottare perché, molto banalmente, la serie non mi piace più.
Ce l’ho con Martin e la sua mancanza di voglia – legittima quanto vuoi ma io rosico lo stesso – che gli farà, secondo me, mollare una saga a cui non è più interessato. Quasi ci spero, vista la scarsa qualità di A Dance with Dragons.
Ce l’ho con quei due cialtroni di Benioff e Weiss cui hanno dato un bel giocattolone e lo hanno rovinato (che poi suddetto giocattolone inizi a far schifo di suo è un’altra questione).
Ce l’ho molto di più con me stessa perché mi faccio paranoie riguardo al fisiologico mutare dei gusti, ma sorvoliamo.

Fino all’anno scorso il mio astio era ascrivibile alla mia natura di book purist scassamaroni. La quasi totalità dei cambiamenti fatti rispetto allo script originario mi ha fatto cadere le palle e il taglio di svariati personaggi mi irrita ancora adesso. Datemi Lady Stoneheart, datemi Arianne e nessuno si farà del male… forse, visto che la storyline di Dorne è quanto di più imbarazzante io abbia mai visto in tv. E io guardavo Pasión Morena.
Ragionandoci su, però, mi sono accorta che c’è dell’altro, soprattutto ora che i due media divergono e divergeranno sempre più.
La verità è un’altra ed è molto banale.
A me Game of Thrones sta sul culo. In ogni sua manifestazione.

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Cose Completamente a Caso

Il sospetto mi sarebbe dovuto venire fin dall’inizio. Per quanto abbia divorato e apprezzato immensamente i primi quattro volumi (parlo della versione in inglese, i ventordici opuscoli pubblicati da Mondadori con copertine al limite del criminale – TEMPLARI? Ma siamo seri? – non li considero) c’era già il sospetto che qualcosa non mi tornasse.

Per esempio il fatto che immancabilmente i fan favourite mi risultassero gradevoli come le emorroidi dopo la serata “Degustazione di habanero”.
Ho odiato Danaerys fin dal secondo capitolo, giusto il necessario per capire cosa ci facesse in quel libro. Odio il suo essere Ammerega Fuck Yeah che porta la Libertà e la Dragocrazia e odio che in realtà non sappia fare niente, odio il suo oscillare tra “sono la regina di stocazzo” e “sono una povera ragazzina che sta imparando l’arte di regnare”.
Dopo la fine del primo libro ho sviluppato un astio immane nei confronti di Arya, lo Stereotipo Deambulante di eroina inutilmente badass, priva di spessore, con un’evoluzione che in realtà è piatta e noiosa (ha passato quattro libri a dire di volere vendetta, a ripeterselo in maniera ossessiva e scusate, ma per tanto così mi prendo un cacatua e gli insegno a dire l’elenco dei morti).
Jon Snow semplicemente mi annoia fino alle lacrime, peggio dei capitoli di Davos o, giuro, di Bran. In cui ok, non succede niente, ma almeno non passano pagina dopo pagina a rompermi l’anima con le loro lagne.
Poi l’attesa snervante, l’emozione per l’uscita del nuovo libro! E, giusto quei tre-quattro giorni necessari per la lettura dopo, il suono riecheggiante dei coglioni che mi si sviluppano, si gonfiano e cadono rotolando via. Persino chi seguivo ancora con un briciolo di interesse – Tyrion – passa il tempo a remare e a contarsela su con gente a caso; Dany passa direttamente allo stadio di sasso coperto di muschio e sta lì a far niente.
Altro che chiudere le fila, qui si aprono millemila nuovi filoni narrativi a cui non riesco ad appassionarmi e non si quaglia nulla.
La serie tv, dal canto suo, ha retto egregiamente per le prime tre stagioni. Non perfette, ci mancherebbe, e con un adattamento spesso demenziale, però avevano il loro perché. Eppure anche qui ritrovavo i fastidi dei libri, aggravati dal fatto che, per dire, Emilia Clarke è un’attrice così agghiacciante che mi sale l’orticaria ogni volta che la vedo in video. Kit Harington non è da meno, ma sembra un cagnolino triste e mi irrita di meno.

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UER AR MAI DWAGUNZ? (Scusa Corinna, non ti volevo offendere)

 

E poi è arrivata la quarta stagione.
Ora, io ho un problema con le serie tv. Parto lanciatissima, mi innamoro della prima stagione e attendo con ansia la seconda. Questa di solito è all’altezza e mi conferma il fomento, ma già l’attesa della successiva si vena di inquietudine. La terza a volte funziona ancora, pur con qualche ammaccatura, ma poi arriva la quarta. E qui sistematicamente – come avevo fatto ai tempi anche con Lo Hobbit – io faccio i numeri per convincermi che è ancora una figata e che la sto guardando volentieri. Mi mento spudoratamente e ormai lo so, perché poi arriverà la quinta e io tirerò giù tutti i santi del paradiso abbinandoli a canidi e suini. Mi è successo con Downton Abbey, mi sta ricapitando molto tristemente con Vikings, ma Game of Thrones è ciò che mi ha fatto formulare la teoria.
La quarta stagione è l’ultima che ho guardato con soddisfazione, ma solo e unicamente per la presenza di Oberyn Martell. Fossi stata meno ingenua, ai tempi, mi sarei risparmiata di covare speranze per la storyline di Dorne dopo la sua morte.
Invece no. Ci ho sperato e ho picchiato la faccia contro QUESTO:

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Belline, eh, ma intollerabili quasi quanto i capezzoli sull’armatura.

Arrivata alla quinta stagione erano più le bestemmie che gli aggiornamenti facebook sulle puntate e ho capito che non era più cosa. Tutti quei difetti che in passato erano finiti in secondo piano, scalzati dall’entusiasmo, adesso mi nauseano. La CGI è brutta (e Dany che scappa sul drago è peggio di Atreyu su Falcor, ma che non ce li avete du’spicci in più?), i personaggi sono sempre più macchietta e persino Tyrion è diventato insopportabile, lo sviluppo psicologico viene costruito a cazzo di cane. E poi mi hanno mandato a vacche la storia di Sansa, l’unica di cui ancora mi importasse, sfruttando quel deprimente, orribile stratagemma dello “stupro per far andare avanti la trama” (che poi in questo caso manco va avanti, non è la molla di niente per Sansa che pora stella ha già sofferto abbastanza. Ma ehi, è una donna, quindi cosa c’è di peggiore che Rubarle La Sua Innocenza? Fncl).

È diventata troppo uguale a se stessa, GoT, troppo viscida e sghignazzante nel perpetrare i propri lati più trash e più – immagino – forti nella loro presa sul pubblico. Mi sento presa in giro, e non solo come lettrice che ormai si è rassegnata al fatto che carta e tv vadano su due binari diversi.

Però che faccio? La mollo e mi perdo una buona fetta di discussioni oltre ai riassuntoni del Dr. Manhattan? Mi autoescludo volontariamente dal fandom?
I Grandi Dubbi Esistenziali.
La sesta stagione ha appena debuttato e, pur essendomi spoilerata lo spoilerabile (grazie Fastwebdimmerda che ancora non mi hai messo la linea a casa e io non posso vedere le cose sull’internèt), il fomento non è salito. Rimane solo una continua, amara frustrazione per qualcosa che mi è piaciuto tantissimo e che ora mi ha lasciato solo la vena polemica.
Un po’ come quando ti molli col moroso prima dei vent’anni. Che lui all’inizio è tanto carino e magari popolare e ti risveglia i più bassi istinti e poi però ti accorgi che gli puzzano i piedi, che non sa cosa sia l’orgasmo femminile e in più ride in quella maniera così irritante che mannaggialclero ti incasso il naso in faccia a furia di cazzotti. Finché dura la cotta iniziale ci si passa sopra.
Poi vien voglia di passarci sopra ancora. A lui. In macchina. Ripetutamente.
E quindi mi sa che anche basta.

(Postilla: non vogliatemene, fan della serie. Sono solo invidiosa di voi che ne siete ancora innamorati: mi piaceva che GoT mi piacesse e provo un filo di nostalgia)

Tornare bambini al cinema: Il libro della giungla

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Ci sono film che fanno parte della nostra infanzia. Un botto di film Disney, per l’esattezza: sono venuta su a suon di repliche selvagge di Robin Hood, La spada nella Roccia, Aladdin e Il Re Leone.
Non che sia cambiato molto, col tempo: non ho mai smesso di (ri)guardare i classici e di aggiornarmi su quelli nuovi.
(*Inserire qui lungo rant su quanto sia PESSIMO FROZEN e il suo cazzo di pupazzo di neve e i personaggi che paiono usciti dalle Winx e quei minchia di troll che bho mi sale l’integralismo matematico*)

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Life goals: microwave Olaf

Ecco, Il libro della giungla non rientra tra i miei amori di gioventù. Non che non l’abbia guardato, capiamoci, e non che non mi piaccia, ma non è un evergreen come – per me – come non lo sono Peter Pan (di cui ho sempre detestato la trama e la faccia da schiaffi di Peter) o Dumbo (che dovrei guardare sotto acido per dargli una seconda chance).
Però… c’è un però.
Kipling, quel bastardo imperialista, ha scritto un libro che ha segnato la mia vita. Complici alcuni lustri di scoutismo la storia di Mowgli l’ho sentita e risentita un milione di volte. E sistematicamente ho pianto per la morte di Akela, ho avuto i brividi quando Shere Khan arriva alla pozza e sparge sangue nell’acqua dopo aver predato l’uomo, ho vissuto con autentica inquietudine la cattura da parte della Bandar Log e così via.
Potevo non andare a vedere il nuovo film? No che non potevo, e infatti ci sono andata.
Sicuramente vederlo in lingua originale sarebbe stato meglio (Idris Elba e la Scarlett da soli mi valgono l’intero cast) ma mi sono trovata davanti a una scelta: guardare il film sul tristanzuolo schermo del mio computer oppure su quella LANDA INFINITA DI MERAVIGLIA E FOTONI che è lo schermo gigante dell’Arcadia di Melzo? Col sistema audio nuovo che ti fa vibrare le budella? Direi che non c’è gara, anche se più avanti rimedierò e renderò giustizia al cast originale.
Devo dire che i doppiatori italiani fanno davvero un buon lavoro, soprattutto Servillo che è un Bagheera azzeccatissimo e la Mezzogiorno che come Kaa mi ha convinta appieno. Meh invece Violante Placido, non all’altezza della mia Lupita del cuore. Soprattutto perché Raksha è uno dei miei personaggi preferiti dell’intero romanzo (insieme a Won-tolla, che purtroppo non ha posto nel film. Ma un lupo più cazzuto di lui non c’è).
Il regista Jon Favreau ci riesce, prende un classicone dell’animazione Disney, ci mette gli animaloni in CGI e non fa una porcata. I panorami sono mozzafiato e, complice anche l’incongrua immensità dello schermo cinematografico, in qualche momento ho avuto seriamente le vertigini. È tutto così bello, così rigoglioso e pieno di vita in ogni angolo dello schermo – date tutti i premi del mondo ai jerboa! – che ho quasi rimpianto il (pur meraviglioso) 3D che mi ha tolto come sempre un po’ di definizione.
La trama è quella, c’è poco da girarci attorno, e pure quelle due canzoncine messe qua e là; i microcambiamenti nel testo sono stati piuttosto fastidiosi, questo devo ammetterlo. E anche il lupino che si chiama “Grey” (Christian, is that you?) e che per me sarà sempre e per sempre Fratel Bigio.
Se la trama la conoscevo prima ancora di arrivare nel parcheggio del cinema, però, il resto delle emozioni mi sono giunte nuove. Non per qualità ma per quantità: non mi aspettavo di avere gli occhi lucidi dopo dieci minuti, né che Shere Khan che irrompe nella Tregua dell’Acqua mi desse così tanto i brividi.
Il film poi non ha fatto benissimo alla mia vaga fobia delle scimmie. Quei dannati omini pelosi sono inquietanti già di loro, ma Louie è un mostro gigantesco e violento, pericoloso quanto Shere Khan ma ancora più brutale.
(Shere Khan che, sospetto, è fatto di carne, ossa e benzina, perché esplode quando cade nel fuoco. Questa scena, così come la fuga dei bufali, pesca a piene mani dal Re Leone e io un po’ ho goduto)
Gli animali sono fatti bene, davvero bene. Sono tutti grandi, enormi, addirittura a dimensioni variabili: si passa da un Baloo normalissimo grizzly (carino come la storia sua e di Baghee sia suggerita e sottintesa) che dorme serafico nella sua grotta a una montagna di pelo e muscoli mentre combatte. Lo stesso capita a tutti gli altri e se all’inizio mi sembrava una svista andando avanti l’ho considerata una scelta ragionata ed efficace.

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Baloo e Bagheera coppia dell’anno (e quand’ero pischella mica ci pensavo a ‘ste cose ma SONO BELLI)

Certo, non è un film perfetto. Sono rimasta delusissima dalla morte di Akela, scagliato via da Shere Khan a metà di una battuta ma senza lasciare lo shock della tragedia improvvisa. E ok, tutta la storia dei Dhole non era parte della trama e la straziante fine del vecchio capobranco non avrebbe mai avuto posto sulla pellicola, però insomma, a me i lacrimoni vengono lo stesso se ci penso. È un po’ infantile per certi versi, semplicistico… e sticazzi, dico io, perché in quella sala immensa sono tornata bambina di nove anni, impegnata a elencare tutti gli Ikki e i Rama e i Chil e i Rikki Tikki Tavi sullo schermo per badare a qualcos’altro.
Guardatelo. Da bravi.

(Mi rendo conto di non aver praticamente neanche citato Mowgli, ma diciamoci la verità: di Mowgli frega un po’ poco a tutti. Ci sono gli animali parlanti e insomma, a me questo basta e avanza)

Una Valpur a IoScrittore 2: gli incipit

L’avventura di una mediamente giovane Valpur a IoScrittore prosegue. E non è che ci voglia molto, visto che la prima fase non si è ancora conclusa e non c’è ancora modo di essere eliminati. Ma l’ottimismo è il profumo della vita eccetera.
Come ci dicevamo qualche tempo fa mi sono arrivati i quindici incipit; nel giro di tre settimane scarse li avevo già letti e valutati tutti. Precipitosa? Possibile, ma mi conosco e so che devo sempre ascoltare la mia prima impressione: forse non sarà accurata, ma mi fornisce una buona indicazione di massima circa il parere che finirò col farmi. In effetti, rileggendo i testi e i miei stessi giudizi a mente più fredda mi sono resa conto di non aver cambiato idea; qua e là ho sistemato le valutazioni – un mezzo punto in più per chi lo meritava, mentre le insufficienze tali sono rimaste – e corretto il tiro nel tono di alcuni commenti, ma il succo non è mutato.

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Piccolo cane, non preoccuparti. Puoi usare quei fogli come cesso in caso di giornata uggiosa. Sarà comunque un destino più nobile di quello preventivato.

Cosa ho letto? Generi diversi ma meno di quanto sperassi: poco, pochissimo fantastico, un pizzico di mistero e avventura e un’emorragia di narrativa generale/sentimenti con poco o niente di interessante. Che poi io non capisco, cosa mi significa “narrativa generale”? E perché nella quasi totalità dei casi non è distinguibile dal genere “sentimenti” se non per qualche romance che più romance non si può?
Ho distribuito due insufficienze gravi: un fantascienza così brutto e scritto a caso (neanche semplicemente male: proprio ad mentulam canis) che non riesco a definirlo altro che una presa in giro e un romance con un errore già nel titolo e una sfilza di minchiate fin da pagina uno. Due casi in cui verrebbe da chiedersi se:
-sia davvero indispensabile dedicarsi alla scrittura; insomma, è pieno di hobby interessanti e di certo gli autori hanno dei talenti da far fruttare. La padronanza della lingua e la capacità di raccontare storie però non sono tra essi. Giuro, credetemi, scrivere non è obbligatorio, non è che se ci si improvvisa scrittori si diventa più fighi, col pene più lungo o il culo più sodo. No, proprio no;
-gli autori abbiano terminato le scuole elementari, che so bene essere obbligatorie ma bho, il dubbio viene;
-sempre suddetti autori abbiano idea di cosa sia un libro e del tipo di requisiti necessari per aspirare a una pubblicazione.
Ho avuto la fortuna, in compenso, di incappare in tre gioiellini adorabili. Generi diversi – e in almeno un caso proprio quella “narrativa generale” che fatico a comprendere ma che in un singolo incipit ha perfettamente senso – ma tre storie divertenti, scritte in maniera avvincente, che mi hanno fatto desiderare di poter leggere l’intera opera. A questi tre autori auguro di tutto cuore di trovare un posto sugli scaffali perché sono bravi e se lo meritano. Gli offrirei gattini e biscotti se li avessi sotto mano.
Tutto il resto è noia.

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Di sicuro più interessante di molta roba che ho letto.

Non solo per una banale citazione musicale ma perché sul serio, mi sono trovata a sguazzare in un pantano di incipit in cui non succedeva assolutamente niente. E va bene, posso accettare un inizio loffio, un prologo che introduca le vicende in modo elegante, quasi sottovoce, però poi ci dev’essere un qualcosa da raccontare, uno stimolo che mi faccia chiedere da lettrice “Sì, però poi cosa succede?”. In dieci casi su quindici tutto questo non esiste; sproloqui, sproloqui ovunque. C’è chi li riempie di boria e di uno stile pesante – e a costoro direi: se volete farvi una sega andate in bagno e autocompiacete voi stessi senza sensi di colpa, che non diventerete mica ciechi; la scrittura è un’altra cosa. C’è la fiumana di stili piatti e monotoni che fanno sembrare questi incipit temini di scuola media, e io dico, cara colleganza con una tastiera sotto le dita, ma davvero vi divertite a scrivere così?
E io lo so, lo so benissimo che sarà qualcuno pescato da quest’ultimo gruppo a sfondare. Niente letteratura di genere, non sia mai che poi il popolo bove si metta in testa che ci possano essere ottimi libri di evasione, ben scritti e divertenti; niente di sopra le righe, di coraggioso, di originale, che se rischi poi inciampi e cadi e muori. Peccato che l’editoria italiana stia morendo proprio per quest’eccesso di prudenza e carenza di metaforiche palle.
Che questo giudizio sia influenzato dai miei gusti personali? Per carità, a me piacciono le esplosioni, i laghi di sangue, i drammoni e le avventure, però non solo. So – dai, almeno questo me lo concedo – distinguere una storia con del potenziale e ben narrata, anche se non rientra nei miei canoni standard di Mazzate e Lacrime.

Ogni tanto faccio un salto sul blog del concorso e mi viene anche da commentare, poi mi rendo conto di quanto sia demenziale la struttura della community (puoi fregare i nickname altrui, spacciarti per chi vuoi, non c’è modo di rispondere direttamente ai post né di linkarli, solo una sfilza di commenti uno sotto l’altro e tanta confusione) e mi si sgonfia la poesia. Noto una certa menosità diffusa, qualche sintomo di “lei non sa chi sono io” e di “no e non me ne frega una beneamata minchia” e tanta, tantissima ansia da prestazione.

Io? Io non è che mi aspetti molto. Non ho scritto qualcosa di commerciabile da un grande gruppo editoriale, è una nicchia nella nicchia e mi verrebbe anche da chiedermi chi me l’ha fatto fare di iscrivermi a IoScrittore.
Tutto sommato, nonostante gli incipit da latte alle ginocchia, mi sto anche divertendo; c’è quel brividino di attesa, la prospettiva di ricevere dei commenti, l’entusiasmo di leggere qualcuno che ti fa dire “oddio, vorrei essere te” ma anche “… ecco, invece meno male che non sono te”. Non so se sarò nei 300 superstiti alla prima fase e quasi di certo non arriverò in finale; nessun editor mi noterà (se non forse per chiedersi cosa mi sia venuto in mente di scrivere una roba del genere) e pace. Però intanto avrò lo sprone per finire ‘sto dannatissimo libro, che una gravidanza con parto annesso sarebbe una cosa più breve e semplice da affontare.
Vedremo. E vedremo anche quale sarà l’effetto di aver scelto un nickname – segretissimo – maschile per un testo appartenente a un genere che di donne autrici ne vede poche. Magari almeno lo stigma dei cromosomi XX me lo eviterò.

Lungavista: il fantasy che volevo

[Spoiler come se non ci fosse un domani]

Ci sono quei libri che inizi a leggere e poi molli lì.
In alcuni casi è un addio per sempre con lancio parabolico e fuga precipitosa, come per esempio con Guerra e Pace (oh, io ci ho provato a farmi piacere la letteratura russa, ma non ce la posso fare). In altri casi – per fortuna numerosi – si tratta di un “no, grazie, non adesso”.
Robin Hobb e la sua Trilogia dei Lungavista ricade in quest’ultima categoria.
Iniziai a leggere il primo della saga quattro o cinque anni fa e mollai dopo un paio di capitoli infastidita dal fatto che il protagonista fosse un bambino che praticamente non parlava.
Che sciocca sono stata!

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Non male questa copertina, dai.

Ho ripreso in mano “L’apprendista assassino” durante le vacanze insieme ad altri due libri (uno brutto e uno bello) e ho capito quanto mi sono sbagliata.
La storia segue le vicende di FitzChevalier, figlio bastardo dell’erede al trono dei Sei Ducati. Sangue reale che non può essere riconosciuto ma che può essere usato per difendere il re: Fitz viene infatti reclutato e addestrato in segreto da Umbra, fratellastro del vecchio re Sagace, spia e assassino al suo servizio.
È vero, all’inizio Fitz è solo un bambino sperduto, lasciato alle cure del burbero stalliere Burrich. Fitz parla pochissimo, non sembra avere doti particolari a parte – piccolo dettaglio – la capacità di legarsi agli animali. Prima Nasuto, poi Ferrigno, infine un lupo: una magia antica e spesso guardata con orrore, lo Spirito, unisce Fitz ai suoi compagni a quattro zampe di cui condivide pensieri ed emozioni.
Ma avendo il sangue reale dei Lungavista Fitz possiede anche l’Arte, una seconda forma di magia molto più umana e ritenuta decisamente più nobile.
La trama della trilogia, a grandi linee, è semplice: il figlio minore di Sagace, Regal, vuole il trono e alla fine se lo prende. Fitz deve rovesciare l’usurpatore e al tempo stesso salvare il regno dalla minaccia dei Pirati delle Navi Rosse.

Da quant’era che non leggevo una saga fantasy? Anni. E da quanto non ne divoravo i capitoli uno di seguito all’altro? Ancora di più.
La Hobb mi ha riportata a quando avevo diciott’anni e sapevo immergermi nelle storie senza che la realtà mi distraesse.
Ho riso, ho pianto – quanto ho pianto! – e mi sono emozionata perché i personaggi sono meravigliosi. Quasi tutti, almeno.
Fitz, il protagonista, avrebbe disperato bisogno di qualcuno che lo avvolgesse in una copertina soffice, gli desse una tazza di tè e gli dicesse di star tranquillo perché andrà tutto bene. Davvero, io un personaggio così sfigato non lo trovavo dai tempi di Polly Anna. Soffre tantissimo e in mille modi diversi, dalla perdita degli amici al tradimento al puro dolore fisico. Subisce abusi terribili che mi hanno fatta infuriare: Galen, mago di corte in combutta con Regal, arriva a spingerlo al suicidio e non so esprimere l’odio che ho provato per questi due antagonisti così stronzi. Siamo ai livelli della Umbridge, e io la Umbridge la tirerei sotto in macchina.
Povero, disperato Fitz, costretto a essere forte anche quando non ne può più, capace di amare tantissimo e scemo come un ciocco di mogano perché se ne rende conto all’ultimo minuto. Mille volte ho voluto abbracciarlo e altrettante prenderlo a schiaffi (ogni tanto è di una stupidità abissale, ma posso capirlo: non ha più di vent’anni e ne ha passate di ogni, è giustificato).

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E brava Fanucci, che per una volta mostri buon gusto.

Burrich è straziante a modo suo, un uomo che ha sacrificato tutto – se stesso, la propria libertà, il proprio amore – per lealtà verso il padre di Fitz, il principe Chevalier, che non salirà mai al trono che gli spetta. Non è un personaggio semplice da amare perché è ruvido e brutale e può sembrare spietato nel suo crescere Fitz con lo stesso polso che userebbe con un cane disobbediente, ma dentro, sotto anni di silenzio e sbronze, c’è il cuore più grande di tutta Castelcervo. Anche per lui ho pianto leggendo “Il viaggio dell’Assassino”, perché c’è spazio per della felicità nel suo futuro e non osavo sperarci.
Umbra è Silente ma non fa neanche finta di essere buono. Geniale, saggio e spietato con i nemici tanto quanto con Fitz, cui nonostante tutto si affeziona, è una presenza costante e, giustamente, nell’ombra che però è impossibile ignorare. E quanti altri personaggi meravigliosi! Veritas (per cui ho pianto come una fontana, nonostante per due libri mi fosse importato relativamente poco di lui) e Kettricken e Sagace e dama Pazienza…
Ah, le donne. All’inizio del primo capitolo mi lamenticchiavo con me stessa per la carenza di personaggi femminili di rilievo. Molly, una ragazzina del borgo che diventerà poi l’amante di Fitz, mi era insopportabile e non ho cambiato idea: non è interessante, è spesso sgradevole e fa sempre troppo la dura, risultando semplicemente antipatica. Fitz è cotto di lei come può esserlo un ragazzino di sedici anni ma ho continuamente sperato che arrivasse qualcun altro a scalzare Molly dal suo cuore e dal suo letto. E invece no.

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Insomma, posso sperare in una ventata di copertine carine…

Anche in questo, comunque, mi sono ricreduta. Pazienza – la moglie di Chevalier, un tempo regina-in-attesa – all’inizio è mostrata solo come una donna sola, eccentrica e un po’ fulminata, Kettricken solo come una principessa un po’ ingenua. Entrambe però mettono su la corazza una pagina dopo l’altra, e non solo metaforicamente, arrivando a farmi dispiacere per il poco spazio che Pazienza ha avuto nell’ultimo libro. Pur se solo riportata, comunque, la scena in cui riesuma e lava il cadavere di Fitz (sì, c’è anche un “sono morto ah no scherzavo” ma ha perfettamente senso ed è bellissimo) spezza il cuore e mi ricorda in qualche modo la Pietà di Michelangelo. Persino Trina, la dama di compagnia, o Poiana, la maestra d’armi, sono perfette nella loro semplicità, e in generale la Hobb crea un mondo in cui donne e uomini hanno pari diritti e pari opportunità.
Ma i miei personaggi preferiti in assoluto non sono uomini né donne. In un caso non sono nemmeno umani.
Il Matto è il buffone di corte, una creatura albina e minuta che parla per enigmi spesso sboccati e sembra sempre sapere più di quanto mostri. E infatti è così: né maschio né femmina, a stento umano, di certo carico di mistero, è portatore di oracoli e di guai. Il contrasto tra il piglio da giullare e la delicatezza del suo animo d’artista è forse uno dei dettagli più raffinati dell’intero ciclo: quando diventa vittima di Regal – che sembra non essere capace di rispettare ciò che è bello e puro – i suoi lividi e le sue ferite fanno ancora più male.
E poi c’è lui, Occhi-di-Notte, che mi ha rubato il cuore. Un lupo salvato da Fitz quand’è poco più che un cucciolo mezzo morto di fame. Ultimo legame dello Spirito, quello più potente, quello definitivo: è grazie a Occhi-di-Notte che Fitz torna dalla morte. Ma questo non ha importanza, perché il lupo è un personaggio da pelle d’oca: la Hobb rende evidente che non sia umano nei suo pensieri, nel suo ragionare solo in termini di qui e ora, di sensazioni intense ma poco logiche. Eppure più passa il tempo e più il legame con il suo umano lo cambia, lo rende capace di pensare al futuro, meno spensierato e profondo. Fitz perde per due volte il suo compagno animale – il segugio Nasuto gli viene portato via (e io ho creduto fosse morto per tipo quattrocento pagine ed è stato orribile), il terrier Ferrigno viene ucciso (no, seriamente, se fosse morto un altro animale sarei andata a piangere sulla porta della Hobb chiedendole “Perchéééé?”) – e per due volte si promette di non legarsi più, anche perché Burrich non lo tollera e lo allontana. Ma con Occhi-di-Notte è inevitabile e in più di un’occasione gli salva la vita. Alla fine sarà il lupo a rimanergli accanto fino alla fine e anche oltre; vederlo invecchiare con Fitz, scoprirlo col muso imbiancato e le articolazioni un po’ indolenzite è stato il lieto fine che volevo.
Lieto ma agrodolce, perché a parte il lupo Fitz è solo. Sereno ma non felice, nonostante abbia compiuto il proprio dovere e salvato il regno.
Ho preferito i primi due tomi della trilogia all’ultimo: è un fantasy più sobrio, intriso di magia ma con pochi effetti speciali e tanti intrighi; l’ultimo, al contrario, pullula di draghi e creature centenarie e leggende che prendono vita. Ma se anche il viaggio da cui il terzo volume prende il nome non mi ha entusiasmata, la destinazione meritava pienamente ogni pagina.

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… Come non detto. Nuova edizione, nuovo nonsense. Ma che bruttezza, santo cielo…

E ora sono qui, con quello strano senso di vuoto che ti rimane dentro quando finisci un libro che ti regala davvero qualcosa. Come si ricomincia a vivere le storie dopo un simile, meraviglioso trauma?
Ne uscirò, eh, lo so benissimo perché ci sono già passata.
Però davvero, Robin Hobb è geniale e io le voglio tanto, tanto bene.
E per favore, qualcuno regali #unagioia a FitzChevalier, grazie.

 

After e Over e dilemmi e anche basta, dai.

C’era una volta il mondo delle fanfiction.
Dapprima fu Fanfiction.it (e io ancora non riesco ad accettare che il dominio sia tenuto occupato senza alcuna ragione apparente), poi venne EFP a imporsi come leader nel panorama della scrittura amatoriale in Italia.
Non erano tempi poi così tragici: su quei siti si riversava il tempo libero di chi si divertiva a giocare con i personaggi delle opere che amava, con risultati che andavano dal demenziale all’incredibile. Rimaneva comunque un hobby che esauriva la propria vita all’interno di una comunità di appassionati. Poche pretese, il solito contorno di lacrime e sangue e flame epocali. Era un mondo grottesco per certi versi ma non sgradevole in cui sguazzare; ci si divertiva e per alcuni era un modo per imparare ad approcciarsi alla scrittura in maniera più seria e, magari, dedicarsi al mondo dell’editoria. Ne conosco alcuni, compresa quella che mi guarda dallo specchio ogni mattina.
Poi qualcosa è cambiato. Non so di preciso cosa abbia innescato il meccanismo e non mi perderò in stantii “o tempora, o mores”; sono convinta che da qualche parte c’entri il cambio generazionale e l’essere nativi digitali, ma non so dimostrarlo.
Il mondo della scrittura amatoriale ha lentamente iniziato ad assumere tinte inquietanti e a polarizzarsi. Da un lato un moloch di storie sulla celebrity del momento – One Direction e Justin Bieber, principalmente – e dall’altro tutto il resto.
Ed è qui, da qualche parte, che inizia a emergere Wattpad.
Io ho un account su EFP da una dozzina di anni; quando iniziai a pubblicare le mie storie ero una diciassettenne con una buona conoscenza della grammatica e la testa farcita di cliché e assolutamente non sapevo scrivere. Ho tentato una rapida incursione su Wattpad un paio di anni fa ed è stato orribile.
D’accordo, d’accordo: nel mare magnum di schifo ci sono delle perle, ma sono troppo vecchia e scazzata per setacciare il letame alla ricerca delle perle.
Cosa ho visto? Un culto. L’idolatria di giovani autrici e delle loro pessime fanfiction che trasformano Harry Styles in un maniaco sessuale spacciatore drogato violento e che secondo me picchia pure i bambini.
Questo Harry Styles. Che povera gioia, secondo me al massimo suona ai citofoni e poi scappa ridacchiando.

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Un cretino. Un innocuo, grazioso cretino

Al di là di quanto mi spaventi che i nuovi modelli romantici siano così negativi (ho come il vago sospetto che possano portare ad accettare quegli stessi comportamenti nella vita reale, o forse, al contrario, che romanticizzare gli abusi derivi da una progressiva desensibilizzazione alla violenza), queste storie sono brutte. Banali, scritte male, prive di una vera trama. Pescano nei più bassi istinti del pubblico più giovane e lo soddisfano in maniera immediata e semplice.
I commenti arrivano a migliaia. Centinaia di migliaia. E le case editrici non si lasciano certo scappare il boccone.
Così ci ritroviamo gli scaffali invasi dai vari After e Over e My dilemma is you (che poi davvero, l’inglese di questa frase mi fa accapponare la pelle ma lo so, ok, sono io che sono un palo in culo quando si tratta di forma) (edit: mi dicono dalla regia che sia il titolo di una canzone; continuo ad accapponarmi nel mio angolino e medito sulla mia anzianità).
Tutti uguali. Tutti con gli stessi, stantii stereotipi di lui bello e dannato e lei suorina laica che scopre le gioie del sesso. Non so se abbia fatto più danni E.L. James o Uomini e Donne.
Fosse un inno al trash, poi, lo capirei pure. Qui però si tratta di ragazzine nemmeno maggiorenni che firmano contratti con editori a tiratura nazionale. Spesso editori cialtroni – sto guardando te, Leggereditore – ma pur sempre roba grossa.
E qui vi svelo un segreto: a sedici anni non sai scrivere. Punto.
Al diavolo “eeeeh ma non si può generalizzare!”. L’ho scritto più volte, quando ci si approccia al mondo della scrittura si fa schifo. Così come quando si comincia a giocare a calcio si è dei brocchi o quando si prende in mano un violino per la prima volta si fa piangere JesooBambyno. È la norma, deal with it.
Mancano l’esperienza, le conoscenze base sullo storytelling, manca la faccia da culo che rende consapevoli e la capacità di autocritica. Quella si impara col tempo a suon di stroncature ma ancor di più leggendo gente brava che ti fa dire “non son degno, non son degno”.

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Quante ce ne dovremo sorbire di copertine così?

Quindi pubblicare il libro di una sedicenne, peraltro nemmeno editato come si deve, significa mettere in libreria una schifezza. Punto. Venderà, eh, ci mancherebbe, ma rimarrà una schifezza. Se questo è accettabile agli occhi di un editore che punta al profitto e sogna di fare il bagno nel DANARO (cosa che comunque non accade, e la crisi del mondo editoriale parla chiaro), da lettrice la trovo un filino una presa per il culo.
Oh, capiamoci: il problema non è che si tratti di fanfiction riadattate. Si fa, può riuscire bene o male a seconda dei casi, ma di per sé non è niente di immorale. Il problema è che questi libri sono pessimi e che non hanno qualità che li salvino; per forza poi vende solo la merda, si abituano i palati a mangiar solo quella e tutto il resto è troppo “difficile” o troppo “sofisticato”.
Questo processo ha distorto anche il mondo della scrittura amatoriale. C’è ancora chi scrive solo per il piacere di far accoppiare quei due personaggi tanto fichi o per riempire i buchi lasciati dalla storia, ma in quanti mirano a emergere dall’oceano di Wattpad e fare il grande salto? Troppi. E tutti uguali.
Che poi basta guardare appena oltre l’orticello malconcio dell’editoria italiana per rendersi conto che c’è speranza. Che ci sarebbe speranza, se solo non fossimo in mano a giganti vecchi e zoppi e morenti che badano solo all’autoconservazione.
Qualche germoglio c’è, per fortuna. E non ha proprio la faccia di Harry Styles.

“Tanto è fantasy” – la magia

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Guarda, non ti conosco ma mi puzzi già di fantasy brutto.

Sono figlia di quell’ondata editoriale che, una decina di anni fa, venerava il fantasy come frontiera definitiva del “fare i big money coi libri”. Parimenti, sono anche figlia del successivo tracollo che si è tradotto in “il fantasy è invendibile”. Sorvolerò sui recenti e ben poco seri commenti da parte di microeditori che dovrebbero spiegare due cosucce ai loro social media manager.
Ho iniziato a scrivere puntando dritta al fantasy. A dirla tutta avrei iniziato con le fanfiction, ma quello è un altro discorso: quando avevo diciassette anni leggevo (brutti) fantasy che mi piacevano tantissimo ed ero fermamente convinta che quello fosse il non plus ultra dell’intrattenimento a forma di libro. A mia discolpa posso dire di aver sempre avuto ben chiaro che si trattava, appunto, di intrattenimento e non dei massimi sistemi (che confesso mi hanno sempre annoiata un po’) (sono superficiale e pacchiana) (e comunque i boriosi che snobbano l’intrattenimento tout court, loro sì, hanno rotto il cazzo).
Nei miei vecchi scritti (e letti) vedo un sacco di ingenuità e di tendenza a sottovalutare che invece il fantastico nel suo insieme è una faccenda serissima, con delle regole precise da seguire, che richiede disciplina ed esperienza per essere gestito in maniera decente. Non dico eclatante, mi basta che sia accettabile.
Perché insomma, il peggior sgarbo che si può fare a questo genere è rifugiarsi in quella che è la frequente spiegazione di plateali incongruenze: “Tanto è fantasy”.
Un paio di balle, “tanto è fantasy”. Se tu, generico autore che si è preso bene con Dragonlance e Il Signore degli Anelli (rigorosamente il film, che oh il libro sono un sacco di pagine e pure scritte piccole e tu hai il tunnel carpale a tener su un tomo del genere quindi no), decidi di far succedere cose improbabili senza degnarti di imbastire una spiegazione credibile, se metti su un universo che non ha delle regole ma in cui la magia è un giocattolone da usare a casaccio… ecco, generico autore, per cortesia, torna a giocare a Baldur’s Gate che viviamo tutti meglio. Tu compreso, perché quando inizierai a nutrire le tue velleità letterarie e a mandare il tuo cap(r)olavoro agli editori ti arriveranno stroncature senza precedenti e tu ci rimarrai male, magari dicendo “non vengo compreso!”. No, hai scritto una schifezza. Ci siamo passati tutti, tranquillo.
Non puoi preparare una torta senza conoscere la ricetta, ecco tutto.
Qui c’è un’interessante disamina – condivisibile o meno, ma valida – su quelli che sono alcuni punti importanti da tenere in considerazione quando ci si approccia a questo genere, ovvero cosa NON fare.
Volevo aggiungere un elemento assolutamente essenziale quando si tratta di fantasy: la magia. Fatela bene.
L’intero genere si riduce a questo. Hai una storia, hai dei personaggi che fanno cose, crescono (e questo è essenziale, perché non c’è fantasy senza “viaggio dell’eroe”, magari mascherato da qualcos’altro), e nel frattempo succedono cose incredibili. Cose che non si possono spiegare con la fisica o con qualsiasi altra disciplina scientifica.
Per farla breve: le cose impossibili spiegate con pseudoscienza e technobabble sono fantascienza, il soprannaturale magico è fantasy.
Da cosa si distingue un buon fantasy da uno mediocre? Dall’aderenza alle regole. E il primo che mi viene a dire che l’artista è tale perché trascende e infrange queste pastoie viene colpito ripetutamente con Stormbringer. Prima di infrangerle bisogna conoscerle e saperle applicare a menadito, le regole, altrimenti si è solo dei pigri mentecatti. Fine della storia.
Creare un universo significa dare forma a un caos di fantasia e ispirazione che, preso da solo, è interessante forse giusto per l’autore, che ci si crogiola nei momenti di noia. Se però si vuole puntare all’intrattenimento di un lettore… be’, le cose cambiano. Ordine e leggi servono per non confondere l’interlocutore e soprattutto per non far passare il “creatore” per un debosciato che fa cose a caso.
Vado a saccheggiare a piene mani dalle Regole di Sanderson (sì, quel Brandon Sanderson, quello che ha scritto un sacco di libri che mi dicono essere fichissimi ma la cui lunghezza mi scoraggia da anni) e in particolar modo dalla seconda: i limiti devono superare i vantaggi. O almeno dovrebbero, in quella che considero narrativa fantastica fatta bene. Per dire, nella Trilogia dei Lungavista di Robin Hobb, che mi sto godendo immensamente in questo periodo, esistono diverse forme di magia che forniscono soluzioni essenziali per il protagonista. Peccato che una sia vista peggio del Satanismo e causi una regressione allo stadio animale in chi la pratica, mentre l’altra venga appresa tramite enormi sofferenze e dia dipendenza quanto e più di una droga. Il sistema magico è tutto sommato semplice ma efficace. Altro esempio: in Harry Potter la magia fa svariate cose, ma ci vogliono anni di studio per imparare a praticarla e non può essere utilizzata sempre e comunque (Statuto di Segretezza e affini).
Ovviamente la regola è valida in generale; chiaro, se mi metto a scrivere una storia i cui protagonisti sono divinità potrei aver bisogno di paradigmi differenti, ma è importante tenerla presente per non fare gli sboroni senza cognizione di causa. Maggiori sono le implicazioni dell’uso della magia e più specifiche devono essere le regole che la controllano.
Per questo l’esclamazione “Tanto è fantasy!” mi fa salire la pressione arteriosa.

“Kafra il magnifico”: un film d’azione con la magia

Ne parlavo pochi post fa: durante queste vacanze ho letto. Non tanto come avrei voluto (ero impegnata a farmi i selfie coi macachi) ma abbastanza.
Qui un lungo rant sul perché il primo libro dell’elenco mi abbia fatto venire la piorrea dal fastidio.
Ora quindi direi che ci meritiamo un po’ tutti qualcosa di migliore.

“Kafra il magnifico” è un romanzo breve/racconto di Mala Spina. Autopubblicato, e un giorno mi prenderò del tempo per eviscerare il mio rapporto in evoluzione con il fenomeno del selfpublishing. Per ora basti questo: ero scettica, lo sono ancora, ma più passa il tempo e più scopro prodotti davvero interessanti e ben fatti (qui e qui due esempi; del secondo parlerò prima o poi perché merita). Al tempo stesso l’editoria tradizionale mi sta dando tante e tali delusioni che mi sale la tristezza a entrare in libreria (parlo soprattutto dei soliti giganti editoriali, che ormai somigliano sempre più a dinosauri morenti) (vi ho mai detto quanto bruci la delusione per il comportamento di Fanucci e della sua branca Leggereditore? Anche questo un giorno dovrò raccontarlo).

Di “Kafra” avevo scorto qualche accenno qua e là tra i vari siti e gruppi che seguo. So che il detto suggerirebbe diversamente, ma è stata la copertina a incuriosirmi: è fatta bene, è professionale e funziona!
kafraCiò che non avevo notato perché sono una lettrice vorace e disattenta è che si tratta di un “secondo episodio” di “Storie da un Altro Evo”. La serie di avventure in cui è inserito, tuttavia, è composta da capitoli indipendenti, quindi non ho patito per niente questa mia svista.
Posso discolparmi dicendo che ho effettuato l’acquisto appollaiata su una seggiolina sbilenca a Fiumicino, aggrappata all’hotspot del cellulare morente. Acchiappata dal prezzo, dalla copertina e dalla descrizione non è che mi sia proprio impegnata a capire se ci fossero dei prequel.
(Per la cronaca, l’ho scoperto dopo aver finito di leggere, e questo ha modificato di molto alcune mie percezioni sull’opera).

Va’ che bellina, va’.

Di cosa parla, “Kafra il magnifico”?
Città Vecchia. Un postaccio, a quanto pare, frequentato da papponi, tagliagole e cacciatori di taglie.
Jelicho rientra nell’ultima categoria (oltre che essere assiduo usufruitore dei servizi forniti dalla prima). Lo incontriamo al risveglio, in plurale e buona compagnia, costretto a fare i conti con qualche acciacco dell’età.
Un ultimo impiego, si dice, e poi basta. Vita tranquilla e soldi da godersi.
Kafra è un mago e un mentecatto che truffa sgradevoli e ricchissime vecchie per poi sparire.
Che ci vuole ad ammazzarlo? Niente.
Peccato che poi Kafra torni. Di nuovo. E ancora. Jelicho è comprensibilmente perplesso e anche un po’ scocciato dall’accozzaglia di rivali che, oltre a lui, dà la caccia allo stesso uomo.
Ovviamente Kafra ha un segreto che lo rende, apparentemente, immortale e che fa scorrere un sacco di sangue.

È in tutta onestà una delle storie più divertenti che abbia letto negli ultimi anni. Sicuramente a suo favore gioca la brevità – di cui di solito mi lamento ma che in questo caso si sposa con uno stile vivace e mai retorico. Sembra un film d’azione: fast paced (esisterà una traduzione italiana ma non mi viene quindi ciccia), colorato, efficace.
I personaggi sono adorabili. Un appunto che mi continuava a girare per la testa durante la lettura riguardava la carenza di personaggi femminili, ma mi sono dovuta ricredere: ci sono e sono originali, ma soprattutto hanno più spazio negli altri episodi della serie.
Jelicho è perfetto. Non come persona – anzi – ma come personaggio. Ok, ok, probabilmente il fatto che me lo immagini come Djimon Ounsou che fa il cosplay di Nazir in Skyrim contribuisce a questa cotta pazzesca che ho per lui, ma c’è dell’altro. Non è un eroe, è un uomo non più giovanissimo (ma ancora decisamente prestante nonostante la presbiopia che avanza) che deve recuperare le fila della propria vita e dovrebbe mettersi tranquillo. Solo che non ci riesce: non solo deve acciuffare Kafra, ma il finale lascia intendere che tutto sommato la noia non fa proprio per lui.
Kafra invece è l’antitesi del carisma eppure funziona: è originale, diverso, sovrappeso e sudaticcio. L’ultima persona che ci si aspetterebbe rappresentare un simile guaio. E invece…
E invece tutti lo vogliono, tutti lo cercano e parecchi fanno una brutta fine. Per alcuni mi è persino spiaciuto, nonostante fossero dei disgraziati criminali senza speranza. Ma io ho un cuore tenero e ultimamente una cotta per i cattivi ragazzi.
Dello stile ho già parlato; la forma è corretta e ho notato giusto un paio di sviste. Ho visto editori blasonati fare molto, molto di peggio.
E brava Mala Spina, che mi hai fatta divertire e ti sei assicurata una fan anche per i prossimi capitoli!
Già che ci sono, ecco dove potete trovare il tutto:
Il giorno del drago
Kafra il magnifico
Brutta come la morte” (che ho già preso perché parla di un personaggio FICHISSIMO che compare anche nel capitolo precedente)

L'uomo che non c'era

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