“Harry Potter and the Cursed Child”: no, non ne avevamo davvero bisogno.

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[ATTENZIONE SPOILER A MANETTA]

C’era una volta – tanto, tanto tempo fa – tanto, davvero – una Giovane Valpur circa diciassettenne. Questa Giovane Valpur, col suo cuoricino ancora tenerello e fatto di sugar&spice invece che di catrame, astio e ansia, nel riprendersi dalla prima, cocente delusione d’amore si dedica dapprima alla visione, quindi alla lettura delle vicende di questo maghetto che si chiama Harry Potter. Correva l’anno duemilaepochissimo e l’Ordine della Fenice non si era ancora affacciato alle librerie.
Sarebbe accaduto di lì a qualche mese e avrebbe segnato l’inizio di una tradizione breve ma intensa: aspettare l’avvento del nuovo capitolo della saga, chiudersi in camera al buio con solo una lucina e una scorta di dolci e divorare pagina dopo pagina – in un inglese all’epoca ancora un po’ zoppicante ma pieno di zelo e buone intenzioni – l’intero tomo prima del sorgere del sole.
Begli anni. La passione non cala e si incastra saldamente tra le fibre dell’essere della Sempre Meno Giovane Valpur, nonostante quel filino di delusione per l’epilogo molto meh.
Flashforward: 2015. O 2016, chi si ricorda. Comunque la Decisamente Non Poi Così Giovane Valpur apprende, insieme al resto del mondo, che ci sarà un’ottava storia ambientata nel Potterverse, “Harry Potter and the Cursed Child”. Protagonista la nuova generazione, quella pletora di marmocchi dai nomi che viaggiano tra l’imbarazzante e l’inquietante (“Ciao, ti chiami come il preside che mi ha manipolato per metà della mia vita e come secondo nome hai quello dello stalker di tua nonna morta MA TRANQUILLO TI VOGLIO BENE”) (Questo in effetti spiega parecchie cose che vedremo più avanti) figli di genitori illustri.
Non un libro, occhio: uno spettacolo teatrale che ha debuttato in quel della perfida Albione a inizio giugno 2016. In quei giorni su Twitter impazza l’hashtag #keepthesecret, ovvero un invito a chi avesse assistito alla premiere a non divulgarne la trama. L’internet risponde con una sonora pernacchia e iniziano a leakare informazioni.
Informazioni
deliranti.
Inquietanti.
Si parla di una figlia di Voldemort cugina di Cedric Diggory che è tipo un Mangiamorte.
Le grasse risate proprio: non poteva che essere una farsa, un modo bizzarro per depistare i curiosi. Figuriamoci, robaccia del genere manco nella peggiore delle fanfiction con le
Mary Sue Kattyve coi capelli di colori improbabili e il sangue di unicorno!
L’interesse dura il giusto; c’è chi ci crede, chi no, chi preferisce soffermarsi sulla scelta di un’attrice di colore per Hermione. Quest’ultimo sembra essere il problema principale, la maggior fonte di flame e litigate online. Posto che la qui presente ritiene che il problema non si ponga – teatro e cinema sono due media diversi e quindi sticazzi per il casting, se hanno scelto una tal attrice sarà ben la migliore per quel ruolo – e posto che la Rowling dovrebbe riflettere un paio di volte prima di rilasciare dichiarazioni online – capisco che il volemosebbene è cosa buona e giusta, ma definire sia Emma Watson che
Noma Dumezweni come “perfette per Hermione” mi fa sorgere qualche dubbio su una delle due – se ne sono lette davvero di ogni; razzismo spudorato o mascherato da purismo letterario, elucubrazioni sull’incarnato di Hermione brandendo il catalogo Pantone…
Oh, sweet summer children. Ma davvero pensavate che fosse QUESTO il problema reale di The Cursed Child?
Folli.
Giunge, nel mentre, la fine di luglio e con essa la release ufficiale dello script di “Harry Potter and the Cursed Child” sotto forma di libro. Hype per me non pervenuto: me ne fregava pochissimo, al punto da ricordarmene giusto allo sbarco a Gatwick vedendo le pile di libri in aeroporto.
“Ma sì”, mi sono detta. “Leggiamolo”.
Ora so. Ora capisco: quel disinteresse, quel dimenticarmi dell’esistenza stessa dell’opera era un tentativo del mio inconscio di proteggermi.

Perché, signore e signori, “Harry Potter and the Cursed Child” è una delle ciofeche più improbabili che io abbia mai letto. Sono davvero allibita da tanta bruttezza: se avessi avuto delle aspettative non so cosa sarebbe successo! No perché quelle voci, quelle informazioni ridicole erano vere.
Erano.
Tutte.
VERE.

Ora, immagino sia cosa nota la mia discreta esperienza in ambito di
fanfiction. Mi piacciono le fanfiction brutte, trash e demenziali. Ma innanzitutto sono gratuite, sono scritte per divertirsi e non c’è dietro un’autrice più ricca di Queen Lizzie che ci caccia questo scempio in mezzo al canon!

Ma andiamo con ordine.
Nell’approcciarsi a “Harry Potter and the Cursed Child” occorre tener presente che non è un romanzo ma uno script: niente descrizioni, solo dialoghi e poca introspezione. E meno male perché la poca che c’è fa venir voglia di percuotere i personaggi con una putrella di ghisa. Non sarà quindi della forma che mi lamenterò.
Il dramma è la sostanza: la trama è inconsistente e in costante contraddizione con i sette libri precedenti (con strafalcioni anche grossi che vedremo più avanti), i personaggi sono nella quasi totalità (una singola eccezione) simpatici come le emorroidi dopo un’indigestione di cibo messicano. I vecchi sono più OOC che IC, i nuovi sono insopportabili e campati per aria.

Il sipario si apre – è proprio il caso di dirlo – con la stessa scena che ci aveva salutati alla fine dei Doni della Morte: siamo al binario 9 ¾ e Albus si appresta a iniziare Hogwarts. Ansia da prestazione, non voglio finire a Serpeverde, vai tra figliolo che ti voglio bene lo stesso, e comunque lo stalker di nonna morta era Serpeverde. Sta’ sinz penzier.
A bordo dell’Espresso Albus (non chiamatelo Al che mi si incazza, oh) fa amicizia con l’unico personaggio che non ho desiderato schiaffeggiare con lo scopino del cesso per tutto il libro:
Scorpius Malfoy. Poraccio, con un nome del genere non poteva che saltar fuori un disagiato, e infatti Scorpius è un piccolo nerd sfigatissimo e scodinzolante che tutti odiano perché – rullo di tamburi – pronti al primo WTF del libro? – girano voci che sia figlio di Voldemort.
Let that sink in.
Figlio.
Di.
Voldemort.
Che si sa, Draco a quanto pare aveva la conta spermatica bassa e quindi Lucius ha mandato indietro nel tempo mamma Astoria per farla ingravidare da Voldemort.
No, questo almeno per fortuna non è vero, ma direi che si inizia a intuire il livello di WTFaggine del tutto.
Già in questa prima scena compare la mia nemesi, il mio odio incarnato: Rose Weasley (ah, facciam finta che sia figlia unica, che tanto Hugo non viene mai neanche nominato. Idem per James e Lily jr. che vengono citati di sfuggita ma in realtà sono dei cartonati). La figlia di Hermione – della coraggiosa, egualitaria e battagliera Hermione – se ne esce con “Albus, non puoi sederti con lui, è un Malfoy! Che schifo! Dovrebbe avere una fila di sedili per quelli come lui bleah!”.
Rose che è sostanzialmente un pregiudizio ambulante, che dà retta ai pettegolezzi e diventa una bulla non riesco ad accettarla. Per fortuna Albus e Scorpius diventano amici (e già da pagina tre io tifavo per il limone che non c’è stato) (La Rowling è stata vigliacca in più di un senso e ne parleremo dopo) e il Cappello li smista entrambi a Serpeverde.
Qui parte il dramma. Albus ha i complessi di inferiorità e quindi inizia a odiare suo padre. Che nel frattempo è regredito ai quindici anni urlanti e scleranti dell’Ordine della Fenice, perché nel corso della storia fa e dice cose ORRIBILI (tra cui ammettere che a volte vorrebbe che Albus non fosse figlio suo o gridare in faccia a Sua Maestà Minerva McGranitt “Che cazzo ne sai tu di figli che non ne hai mai avuti”. Io ero sconvolta).
Gli anni passano in fretta e non ci si sofferma troppo: spettacolo teatrale, tempi contingentati eccetera. No problem.
La trama prosegue con Albus e Harry che si odiano sempre di più, Ginny non pervenuta, Ron che ogni tanto salta in scena solo per ricordare che esiste e altro nonsense assortito. Mamma Astoria muore e la cosa viene smaltita in tre righe, e ok che è uno script e non un libro, però insomma, così è davvero squalliduccio.
Il trigger per l’intera vicenda è la comparsa del vecchio Amos Diggory e della sua badante-nipote
Delphini (no ma bel nome anche tu eh). Amos chiede a Harry di tornare indietro nel tempo con la Giratempo scoperta in possesso di Theodor Nott per salvare Cedric durante il Tre Maghi. Harry ha un guizzo di buon senso e gli dice che dev’essere la senilità a parlare, ma accusa il colpo. Albus nel mentre fa amicizia con l’ultraventenne Delphi e i suoi capelli argentati e blu. L’odore di fanfiction si fa sempre più intenso ma andiamo avanti.
Delphi si offre di aiutare i due pischelli – Albus e Scorpius, il fido sidekick – a recuperare suddetta Giratempo: devono solo fuggire dall’Espresso di Hogwarts e correre in ufficio da Hermione – Ministro, lo sappiamo – che custodisce l’ultima Giratempo.
E qui piovono
WTF come se non ci fosse un domani. Prima la strega del carrello dei dolci si scopre essere un mostro secolare messo lì per impedire agli studenti di scendere dal treno; pare che i Malandrini e Fred&George ci avessero provato… ma non ha senso. Suddetta strega infatti è una creatura mostruosa con tanto di artigli affilati pronta a scagliarsi contro gli studenti; buttata lì così dopo sette libri non regge, soprattutto perché Albus e Scorpius non mettono in atto chissà che stratagemma. Si limitano a saltar giù dal treno e ciaone. Si rimane lì così, un po’ appesi, di fronte a queste trovate troppo facilone, diciamo pure stupide.
Stupidità che troviamo anche – incredibile – in Hermione. Hai un manufatto che doveva essere stato distrutto e cosa fai? Lo nascondi. In ufficio. Lasciando in giro millemila indizi e sciarade per far sì che venga trovato. Sbaglio o non ha senso? Così come è ridicolo far saltare fuori della Polisucco (ricordiamo, una delle pozioni più lunghe e difficili da produrre, con potenzialmente effetti indesiderati gravissimi) dal taschino di Delphi per permettere ai due ragazzi di infiltrarsi al Ministero.
Long story short, Albus e Scorpius iniziano a fare avanti e indietro nel tempo per cercare di:
-salvare Cedric;
-no, cazzo, se lo salviamo non nasce Rose!
-però aspetta, se lo umiliamo per non farlo arrivare in fondo alla terza prova si prende male e diventa Mangiamorte;
-aspetta aspetta stiamo incasinando l’universo.
Sì perché questi due deficienti viaggiano nel tempo un numero improponibile di volte, visitando ogni volta un universo differente e terribile: c’è appunto quello in cui Rose non è nata perché Ron è rimasto con la Patil e Hermione è diventata una professoressa acidissima perché zitella, c’è quello in cui ha vinto Voldemort e tutto invece che essere creepy e spaventoso è imbarazzante.
La Rowling – o più probabilmente i suoi coautori – fa un casino pazzesco con i viaggi nel tempo. Sembra di essere in quella puntata dei Simpson in cui Homer sbaglia a riparare il tostapane.
Saltabeccando tra un passato diverso e un futuro alternativo salta fuori che Delphi, nell’ordine:
-non è nipote di Amos Diggory;
-adesca i minorenni (è super inquietante il suo atteggiamento verso Albus, giuro);
-fa dentro e fuori da Hogwarts senza che nessuno si ponga il problema di un’ultra ventenne sconosciuta in giro per i corridoi;
è figlia di Voldemort e Bellatrix (chiediamoci tutti “ma quando cazzo l’ha partorita?”), allevata da Rodolphus Lestrange (che di preciso quando sarebbe uscito da Azkaban, visto mi risulta sia stato arrestato dopo la Battaglia di Hogwarts?) in quanto importantissima per una profezia che parla del ritorno di Voldemort (sì ma profezia fatta DA CHI? QUANDO? COSA?) e bramosa di conoscere il vero padre.

Dai, su. Vi lascio qualche minuto per immaginarvi il coito. Divertitevi. Una roba tipo l’hawkward hug a Draco alla fine dell’ultimo film ma senza vestiti.
Se avete finito di vomitare possiamo tornare a noi.
Da un lato abbiamo Albus e Scorpius che fanno cazzate, dall’altra i genitori che cercano di metterci una pezza. Delphi è tornata di nuovo indietro nel tempo fino al 1981 per uccidere Harry e “salvare” Voldemort dal rimbalzo dell’Avada Kedavra, facendosi da lui conoscere; i due pischelli la seguono e gli adulti fanno altrettanto.
Perplessi?
Ne avete tutte le ragioni. Come fanno Harry&Co. A tornare indietro? C’è solo una Giratempo, l’ultima, quella di Nott!
Ahahah. No.
Deus ex Machina! Yeeee! Draco fa un gioco di prestigio e salta fuori che aveva pure lui una Giratempo in soffitta ma figa eh, tutta d’oro, subacquea e coi brillantini.
No ma tranquillo, ha tutto perfettamente senso.
I nostri eroi si incontrano nel 1981, neutralizzano l’inutile Delphi e non salvano James e Lily senior perché far casino col tempo non è una buona idea. Duecento pagine e ci siamo arrivati finalmente.
In teoria – e anche in pratica perché basta prendere i libri e LEGGERE le prime pagine scritte chiaramente – a Godric’s Hollow, nel prosieguo della scena chiaramente mostrato nella storia, sarebbero dovuti saltar fuori anche Hagrid e Sirius ma niente, non pervenuti.
Il tutto finisce a tarallucci, vino, amore paterno, abbracci e testicoli che rotolano in lontananza.

Vi sembra confuso questo riassunto? Lo è perché tale è il materiale di partenza. Ho tralasciato qualche dettaglio per concentrarmi sul succo della trama, ma fidatevi, non migliora la situazione.
“Harry Potter and the Cursed Child” è problematico su settantordici punti di vista, ma dopo aver mostrato cosa non va nella trama mi soffermerò sulle due note più dolenti.
Innanzitutto i personaggi.
-I giovani sono, come dicevo, trascurabili se non antipatici. James, Hugo e Lily non compaiono, cosa strana perché andando a esaminare i primi tre anni di Albus a scuola avrebbe dovuto interagirci. Ma va bene, va bene, script e non libro, tempi ristretti, quello che volete, ma a casa mia questa si chiama pigrizia. Sciatteria. Scorpius è carino, è tenero e mi sta simpatico; forse i Malfoy sono l’unica nota positiva nell’intero romanzo. Albus è forzato, tormentato per forza, mai soddisfatto, mai capace di porsi obiettivi. È semplicemente antipatico e sono felice di non doverne leggere mai più. Rose è un problema grave per i motivi che ho già espresso. Al di là del suo essere “figlia di”, Delphi non è caratterizzata; è piatta, poco interessante sia come cattiva che come personaggio con cui provare a empatizzare. Lei e i suoi stupidi capelli e il suo tatuaggio pacchiano: non bastano gli accessori per renderti affascinante, cocca.
-I vecchi… dove sono? Tolto Malfoy che mostra di essere cambiato ed evoluto (è un buon padre e mostra di avere un cuore, anche se il cervello non è pervenuto. Una Giratempo in cassaforte per tutto quel tempo? Ma sei serio?) gli altri sono terribili. Harry è un padre inqualificabile, uno che regala al figlio maggiore il suo fichissimo Mantello dell’Invisibilità e al mediano la copertina sgualcita in cui è stato deposto davanti a casa Dursley. Lily si sarà beccata un fazzoletto usato, immagino. Io capisco tutto, l’essere orfano, il peso delle responsabilità… ma questo ritorno al peggio di sé, pronto a insultare chiunque tenti di aiutarlo o gli dica che forse non ha sempre ragione mi è risultato alieno, lo stridio di unghie sulla lavagna. Ron, il leale, coraggioso Ron che accetta di essere il secondo perché il suo amico ha bisogno di lui, si è trasformato in un minchione che fa battute fuori luogo e parla solo di cibo, proprio da miglior – no, anzi, peggior – tradizione ficcynara. La meravigliosa Hermione regge nella cornice dell’opera, nel “presente” effettivo in cui la vicenda si snoda e nella sua versione ribelle nell’universo alternativo “Voldemort vince”, ma la professoressa zitella è offensiva. In uno dei mondi possibili, ve lo ricordo, non sposa Ron che invece si riproduce con la Patil e Hermione rimane da sola diventando una stronza peggiore di Piton… e il tutto perché non ha sposato Ron. Tutto qui. Il suo valore come donna adulta è determinato dal rapporto con un uomo, non da ciò che è – intelligente, caparbia, geniale, pronta a tutto per chi ama – no, è Ron a renderla meritevole di stima. Lasciata da sola diventa una cafona. L’ho trovato ripugnante. A Ginny non va meglio: la combattente di fuoco dei libri (già smorzata e trasformata in noia a pedali nei film) diventa una mamma noiosa e lasciata in un angolino a far la calzetta o poco più. Era l’occasione per farle spaccare qualche culo ma non sia mai che si sottragga screen time all’eroe protagonista.
Gli altri della vecchia guardia, soprattutto Piton e Silente, sono stati piazzati lì per mero fanservice e per ricordarci che ehi, Piton era BUONO LUI AMAVA LILY ERA UN SANTO. No, non è vero, era un uomo di merda che ha rovinato l’esistenza a un bambino la cui unica colpa era di essere figlio delle persone sbagliate. Che poi si sia comportato da eroe è un dato di fatto, ma non facciamo passare Piton per paladino immacolato che anche no.

E adesso passiamo a un altro, immane problema di questo libercolo: queerbaiting. Albus e Scorpius hanno tutte le caratteristiche della coppia. Pagina dopo pagina ci vengono presentati come sempre più legati, spesso in maniera anche “imbarazzante” per loro stessi (sono molto “fisici” nel dimostrare il reciproco affetto). Hanno una bella relazione solida al cui confronto le cottarelle per Rose – da parte di Scorpius – e Delphi – brrrr, da parte di Albus – risultano slavate e messe lì giusto per far capire che oh, non sono mica ghei.
Ma che male c’è? La Rowling, con tutto il bene che le voglio, è una gran vigliacca che ha evitato accuratamente di inserire orientamenti sessuali diversi dalla palese eterosessualità nei suoi main characters, salvo pararsi il culo in corner a saga finita con “Silente è gay”. Ok, va bene, hai sbagliato una volta ma puoi rifarti, puoi regalarci uno spiraglio di arcobaleno in quest’opera nuova.
E invece niente. Scherzone. Tutti etero e amici come prima.

Vedete, “Harry Potter and the Cursed Child” non è solo brutto e pieno di buchi di trama. “Harry Potter and the Cursed Child” è fastidioso, è goffo e raffazzonato, pieno di ingenuità che mi aspetterei da una Valpur diciassettenne che scrive di quel Remus innamorato di Sirius che va a recuperarselo nell’Inferno Dantesco (giuro, l’ho fatto). Che mi aspetterei da noi fanwriter col gusto del trash o semplicemente giovani e naif e poco professionali.
Non dalla madre di quest’universo. Non dalla Rowling.
Non comprate questo libro, davvero.
Ci sono storie più belle lì fuori, mondi immaginari in cui il Potterverse è rispettato e trattato come merita.
Perché quest’ottava storia sarà pure canon, ma è così brutta che mi è venuto il reflusso gastroesofageo.

… e poi il problema era Hermione nera.
Bof.

Lettera a un apprendista scrittore (come me)

desperateaboutbillsCaro apprendista scrittore, sono come te. Ricordatelo molto bene perché sostanzialmente io sono una Signora Nessuno come tante ce ne sono al mondo, solo con qualche anno di esperienza, livore e rosicamenti sulle spalle.
Ho iniziato a scrivere che avevo diciott’anni e a sguazzare nel torbido mondo dell’editoria un paio d’anni dopo, facendo principalmente un gran casino prima di raccapezzarmi e mettermi a fare le cose a modo. E vuoi sapere, caro apprendista scrittore, cosa intendo per “a modo”?
Senza prendersi sul serio. Che sennò non se ne esce più.
Come forse avrai letto se bazzichi per queste pagine, caro apprendista scrittore, ultimamente sto partecipando a IoScrittore – sai, torneoneONE in cui ci si valuta a vicenda e si vincono ricchi premi e cotillon – e diciamo che ecco, ho passato la prima fase. Mica me lo aspettavo, sai? Col genere che scrivo io di solito arrivano pomodori e cavoli fradici, non certo i reggiseni lanciati da fan sdilinquite. Il che è un peccato, perché avrei giusto bisogno di sistemare il mio cassetto dell’intimo, che piange miseria.
E niente, dicevo, ho passato questa prima fase con tanti commenti entusiasti che mi hanno regalato un paio di cm di altezza in autostima, portandomi quasi nella media nazionale, e la possibilità di gironzolare ancora un po’ nel mondo che circonda questo torneo. Che, manco a dirlo, è uno spaccato abbastanza fedele di quella che è la fauna scrittoria italiana: quindi partiamo dal particolare e inoltriamoci pure nel generale, tanto il discorso che sto per farti vale per tutti.
Vedi, caro scrittore in erba, spero non ti offenderai. Quello che sto per dire non è assolutamente rivolto a te. Figuriamoci. Tu sei la fulgida eccezione che conferma la regola. Che te lo dico a fare?
Però ecco, questa fauna non è mica tanto bella.
Siccome i partecipanti a IoScrittore sono quasi quattromila e i selezionati giusto trecento, è ragionevole affermare che ci siano circa tremilaesettecento esclusi.
Questi numerosi insoddisfatti reagiscono in svariati luoghi del web – principalmente sul blog del torneo stesso – nel peggiore dei modi.
Il recensore negativo è un incompetente, un infame, un malizioso che mira solo ad affossare il Grande Talento (e cerca di capirmi, caro apprendista scrittore: Grande Talento una beneamata minchia, perché nella quasi totalità dei casi si tratta di libridimerda), un automa schiavo del sistema, del gregge di ignoranti che non colgono la Suprema Poesia Dell’Artista.
Ecco, no.
Se su dieci persone ben dieci ti dicono che quella tal cosa non va bene non è che non hanno capito, è che tu – non tu tu, caro apprendista scrittore, figurati – scrivi col culo. Punto.
E fidati, fidati di me, non è la fine del mondo. Scrivere è bello, io stessa ho una dipendenza dalle storie che mi porta a macinare libri e pagine a un ritmo poco decoroso. Però c’è di meglio nella vita. C’è altro. Essere uno scrittore non ti rende migliore degli altri, non più del vicino di casa che strimpella Battisti su una chitarra scordata o che si improvvisa sassofonista.
No, ok, forse un po’ meglio del sassofonista sì. Almeno non scassi il cazzo al pross-ah, no! Scherzavo! Perché quando sei scrittore mica devi esserlo per te, che sennò che gusto ci sarebbe? Siilo per gli altri! Sbandiera tutto il tuo processo creativo! Rompi i cabbasisi all’internèt tutta per dimostrare che ehi, tu sei Oltre, c’hai la sensibilità.
E mentre lo fai, mi raccomando, premurati di non imparare il buon senso, l’umiltà e l’autoironia.
Perché vedi, caro apprendista scrittore, accettare le critiche è così cheap.
(Nell’improbabile caso che tu non sia dotato di suddetta autoironia specifico: sì, sono ironica)
Dai, torniamo seri un istante, ti va, caro apprendista scrittore?
Ho visto reazioni scomposte a giudizi perfettamente legittimi. Che poi ogni giudizio lo è: è diritto di tutti dire “la tal opera mi ha fatto sonoramente schifo”.
Anche così, senza giustificazioni che non ti sono dovute, è un’opinione lecita. Hai scritto qualcosa, l’hai dato in pasto a un lettore, a questo lettore semplicemente non è piaciuta. Fine.
Non è che se ne muore. Se ti vengono dati consigli puoi farne tesoro o anche no, non te lo dice certo il medico e non fa mai bene essere spugne che assorbono tutto ciò che il prossimo dice. Ma se questo prossimo ti fa notare un’incongruenza non è lui a essere stronzo, sei tu che hai scritto, come dicevo prima, col culo.
E lo ammetto, faccio candidamente coming out: mi sono un po’ stancata di questa menosità, dell’intoccabilità dell’Artista di stocazzo. Mi sono stancata di leggere recensioni negative su Amazon che a un sacrosanto “non mi è piaciuto, mi ha annoiato” si vedono rispondere da stuoli di prefiche inorridite che minacciano calamità e rappresaglia e CuginiDellaPostale e “la recensione è falsah! SEISOLOINVIDIOSA!”.
No. Mo’bbasta. Avete rotto tre quarti di minchia. Voi, suffragette della recensione positiva a tutti i costi, e ancor più voi, autoruncoli supponenti che sguinzagliate più o meno consapevolmente – propendo per il più – il vostro esercito della salvezza.
Ti do un consiglio, caro apprendista scrittore: quando ti dicono che la tua storia è brutta forse hanno ragione. Non necessariamente, ma forse davvero c’è qualcosa che non va. Chiaro, se il commento è un “Ahahah chemmerda muori male autore puzzone” è lecito che ti venga il dubbio si tratti di un troll, ma di fronte a pareri – pareri, bada bene, non verità pretenziose – anche ben argomentati fatti due domande, datti due risposte e beviti qualcosa in compagnia degli amici, perché per quanto scrivere sia bello ci sono cose più importanti.

Scrivi e divertiti, goditela perché è una figata quella sensazione di creare mondi e inventare storie. Però, per cortesia, fattela una risata. Giuro che si vive meglio e non si passa per mentecatti.

(E documentati, per dio. DOCUMENTATI perché se leggo un’altra volta di gente che scrive di roba che non sa senza aver approfondito il genere giuro che spacco qualcosa)

(Not so) Unpopular Opinion – Game of Thrones (mi) ha rotto il cazzo.

 

Sono una di quelle che è approdata alle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco con qualche annetto di ritardo rispetto al mondo ma comunque in anticipo rispetto all’uscita della serie tv. Anzi, a dirla tutta ai tempi è stato proprio l’annuncio della serie a farmi prendere in mano i libri.
Gaso a mille! Epicità! DRAGHI! WOOHOO!
E adesso, a distanza di sei anni, mi trovo qui a mugugnare e borbottare perché, molto banalmente, la serie non mi piace più.
Ce l’ho con Martin e la sua mancanza di voglia – legittima quanto vuoi ma io rosico lo stesso – che gli farà, secondo me, mollare una saga a cui non è più interessato. Quasi ci spero, vista la scarsa qualità di A Dance with Dragons.
Ce l’ho con quei due cialtroni di Benioff e Weiss cui hanno dato un bel giocattolone e lo hanno rovinato (che poi suddetto giocattolone inizi a far schifo di suo è un’altra questione).
Ce l’ho molto di più con me stessa perché mi faccio paranoie riguardo al fisiologico mutare dei gusti, ma sorvoliamo.

Fino all’anno scorso il mio astio era ascrivibile alla mia natura di book purist scassamaroni. La quasi totalità dei cambiamenti fatti rispetto allo script originario mi ha fatto cadere le palle e il taglio di svariati personaggi mi irrita ancora adesso. Datemi Lady Stoneheart, datemi Arianne e nessuno si farà del male… forse, visto che la storyline di Dorne è quanto di più imbarazzante io abbia mai visto in tv. E io guardavo Pasión Morena.
Ragionandoci su, però, mi sono accorta che c’è dell’altro, soprattutto ora che i due media divergono e divergeranno sempre più.
La verità è un’altra ed è molto banale.
A me Game of Thrones sta sul culo. In ogni sua manifestazione.

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Cose Completamente a Caso

Il sospetto mi sarebbe dovuto venire fin dall’inizio. Per quanto abbia divorato e apprezzato immensamente i primi quattro volumi (parlo della versione in inglese, i ventordici opuscoli pubblicati da Mondadori con copertine al limite del criminale – TEMPLARI? Ma siamo seri? – non li considero) c’era già il sospetto che qualcosa non mi tornasse.

Per esempio il fatto che immancabilmente i fan favourite mi risultassero gradevoli come le emorroidi dopo la serata “Degustazione di habanero”.
Ho odiato Danaerys fin dal secondo capitolo, giusto il necessario per capire cosa ci facesse in quel libro. Odio il suo essere Ammerega Fuck Yeah che porta la Libertà e la Dragocrazia e odio che in realtà non sappia fare niente, odio il suo oscillare tra “sono la regina di stocazzo” e “sono una povera ragazzina che sta imparando l’arte di regnare”.
Dopo la fine del primo libro ho sviluppato un astio immane nei confronti di Arya, lo Stereotipo Deambulante di eroina inutilmente badass, priva di spessore, con un’evoluzione che in realtà è piatta e noiosa (ha passato quattro libri a dire di volere vendetta, a ripeterselo in maniera ossessiva e scusate, ma per tanto così mi prendo un cacatua e gli insegno a dire l’elenco dei morti).
Jon Snow semplicemente mi annoia fino alle lacrime, peggio dei capitoli di Davos o, giuro, di Bran. In cui ok, non succede niente, ma almeno non passano pagina dopo pagina a rompermi l’anima con le loro lagne.
Poi l’attesa snervante, l’emozione per l’uscita del nuovo libro! E, giusto quei tre-quattro giorni necessari per la lettura dopo, il suono riecheggiante dei coglioni che mi si sviluppano, si gonfiano e cadono rotolando via. Persino chi seguivo ancora con un briciolo di interesse – Tyrion – passa il tempo a remare e a contarsela su con gente a caso; Dany passa direttamente allo stadio di sasso coperto di muschio e sta lì a far niente.
Altro che chiudere le fila, qui si aprono millemila nuovi filoni narrativi a cui non riesco ad appassionarmi e non si quaglia nulla.
La serie tv, dal canto suo, ha retto egregiamente per le prime tre stagioni. Non perfette, ci mancherebbe, e con un adattamento spesso demenziale, però avevano il loro perché. Eppure anche qui ritrovavo i fastidi dei libri, aggravati dal fatto che, per dire, Emilia Clarke è un’attrice così agghiacciante che mi sale l’orticaria ogni volta che la vedo in video. Kit Harington non è da meno, ma sembra un cagnolino triste e mi irrita di meno.

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UER AR MAI DWAGUNZ? (Scusa Corinna, non ti volevo offendere)

 

E poi è arrivata la quarta stagione.
Ora, io ho un problema con le serie tv. Parto lanciatissima, mi innamoro della prima stagione e attendo con ansia la seconda. Questa di solito è all’altezza e mi conferma il fomento, ma già l’attesa della successiva si vena di inquietudine. La terza a volte funziona ancora, pur con qualche ammaccatura, ma poi arriva la quarta. E qui sistematicamente – come avevo fatto ai tempi anche con Lo Hobbit – io faccio i numeri per convincermi che è ancora una figata e che la sto guardando volentieri. Mi mento spudoratamente e ormai lo so, perché poi arriverà la quinta e io tirerò giù tutti i santi del paradiso abbinandoli a canidi e suini. Mi è successo con Downton Abbey, mi sta ricapitando molto tristemente con Vikings, ma Game of Thrones è ciò che mi ha fatto formulare la teoria.
La quarta stagione è l’ultima che ho guardato con soddisfazione, ma solo e unicamente per la presenza di Oberyn Martell. Fossi stata meno ingenua, ai tempi, mi sarei risparmiata di covare speranze per la storyline di Dorne dopo la sua morte.
Invece no. Ci ho sperato e ho picchiato la faccia contro QUESTO:

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Belline, eh, ma intollerabili quasi quanto i capezzoli sull’armatura.

Arrivata alla quinta stagione erano più le bestemmie che gli aggiornamenti facebook sulle puntate e ho capito che non era più cosa. Tutti quei difetti che in passato erano finiti in secondo piano, scalzati dall’entusiasmo, adesso mi nauseano. La CGI è brutta (e Dany che scappa sul drago è peggio di Atreyu su Falcor, ma che non ce li avete du’spicci in più?), i personaggi sono sempre più macchietta e persino Tyrion è diventato insopportabile, lo sviluppo psicologico viene costruito a cazzo di cane. E poi mi hanno mandato a vacche la storia di Sansa, l’unica di cui ancora mi importasse, sfruttando quel deprimente, orribile stratagemma dello “stupro per far andare avanti la trama” (che poi in questo caso manco va avanti, non è la molla di niente per Sansa che pora stella ha già sofferto abbastanza. Ma ehi, è una donna, quindi cosa c’è di peggiore che Rubarle La Sua Innocenza? Fncl).

È diventata troppo uguale a se stessa, GoT, troppo viscida e sghignazzante nel perpetrare i propri lati più trash e più – immagino – forti nella loro presa sul pubblico. Mi sento presa in giro, e non solo come lettrice che ormai si è rassegnata al fatto che carta e tv vadano su due binari diversi.

Però che faccio? La mollo e mi perdo una buona fetta di discussioni oltre ai riassuntoni del Dr. Manhattan? Mi autoescludo volontariamente dal fandom?
I Grandi Dubbi Esistenziali.
La sesta stagione ha appena debuttato e, pur essendomi spoilerata lo spoilerabile (grazie Fastwebdimmerda che ancora non mi hai messo la linea a casa e io non posso vedere le cose sull’internèt), il fomento non è salito. Rimane solo una continua, amara frustrazione per qualcosa che mi è piaciuto tantissimo e che ora mi ha lasciato solo la vena polemica.
Un po’ come quando ti molli col moroso prima dei vent’anni. Che lui all’inizio è tanto carino e magari popolare e ti risveglia i più bassi istinti e poi però ti accorgi che gli puzzano i piedi, che non sa cosa sia l’orgasmo femminile e in più ride in quella maniera così irritante che mannaggialclero ti incasso il naso in faccia a furia di cazzotti. Finché dura la cotta iniziale ci si passa sopra.
Poi vien voglia di passarci sopra ancora. A lui. In macchina. Ripetutamente.
E quindi mi sa che anche basta.

(Postilla: non vogliatemene, fan della serie. Sono solo invidiosa di voi che ne siete ancora innamorati: mi piaceva che GoT mi piacesse e provo un filo di nostalgia)

After e Over e dilemmi e anche basta, dai.

C’era una volta il mondo delle fanfiction.
Dapprima fu Fanfiction.it (e io ancora non riesco ad accettare che il dominio sia tenuto occupato senza alcuna ragione apparente), poi venne EFP a imporsi come leader nel panorama della scrittura amatoriale in Italia.
Non erano tempi poi così tragici: su quei siti si riversava il tempo libero di chi si divertiva a giocare con i personaggi delle opere che amava, con risultati che andavano dal demenziale all’incredibile. Rimaneva comunque un hobby che esauriva la propria vita all’interno di una comunità di appassionati. Poche pretese, il solito contorno di lacrime e sangue e flame epocali. Era un mondo grottesco per certi versi ma non sgradevole in cui sguazzare; ci si divertiva e per alcuni era un modo per imparare ad approcciarsi alla scrittura in maniera più seria e, magari, dedicarsi al mondo dell’editoria. Ne conosco alcuni, compresa quella che mi guarda dallo specchio ogni mattina.
Poi qualcosa è cambiato. Non so di preciso cosa abbia innescato il meccanismo e non mi perderò in stantii “o tempora, o mores”; sono convinta che da qualche parte c’entri il cambio generazionale e l’essere nativi digitali, ma non so dimostrarlo.
Il mondo della scrittura amatoriale ha lentamente iniziato ad assumere tinte inquietanti e a polarizzarsi. Da un lato un moloch di storie sulla celebrity del momento – One Direction e Justin Bieber, principalmente – e dall’altro tutto il resto.
Ed è qui, da qualche parte, che inizia a emergere Wattpad.
Io ho un account su EFP da una dozzina di anni; quando iniziai a pubblicare le mie storie ero una diciassettenne con una buona conoscenza della grammatica e la testa farcita di cliché e assolutamente non sapevo scrivere. Ho tentato una rapida incursione su Wattpad un paio di anni fa ed è stato orribile.
D’accordo, d’accordo: nel mare magnum di schifo ci sono delle perle, ma sono troppo vecchia e scazzata per setacciare il letame alla ricerca delle perle.
Cosa ho visto? Un culto. L’idolatria di giovani autrici e delle loro pessime fanfiction che trasformano Harry Styles in un maniaco sessuale spacciatore drogato violento e che secondo me picchia pure i bambini.
Questo Harry Styles. Che povera gioia, secondo me al massimo suona ai citofoni e poi scappa ridacchiando.

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Un cretino. Un innocuo, grazioso cretino

Al di là di quanto mi spaventi che i nuovi modelli romantici siano così negativi (ho come il vago sospetto che possano portare ad accettare quegli stessi comportamenti nella vita reale, o forse, al contrario, che romanticizzare gli abusi derivi da una progressiva desensibilizzazione alla violenza), queste storie sono brutte. Banali, scritte male, prive di una vera trama. Pescano nei più bassi istinti del pubblico più giovane e lo soddisfano in maniera immediata e semplice.
I commenti arrivano a migliaia. Centinaia di migliaia. E le case editrici non si lasciano certo scappare il boccone.
Così ci ritroviamo gli scaffali invasi dai vari After e Over e My dilemma is you (che poi davvero, l’inglese di questa frase mi fa accapponare la pelle ma lo so, ok, sono io che sono un palo in culo quando si tratta di forma) (edit: mi dicono dalla regia che sia il titolo di una canzone; continuo ad accapponarmi nel mio angolino e medito sulla mia anzianità).
Tutti uguali. Tutti con gli stessi, stantii stereotipi di lui bello e dannato e lei suorina laica che scopre le gioie del sesso. Non so se abbia fatto più danni E.L. James o Uomini e Donne.
Fosse un inno al trash, poi, lo capirei pure. Qui però si tratta di ragazzine nemmeno maggiorenni che firmano contratti con editori a tiratura nazionale. Spesso editori cialtroni – sto guardando te, Leggereditore – ma pur sempre roba grossa.
E qui vi svelo un segreto: a sedici anni non sai scrivere. Punto.
Al diavolo “eeeeh ma non si può generalizzare!”. L’ho scritto più volte, quando ci si approccia al mondo della scrittura si fa schifo. Così come quando si comincia a giocare a calcio si è dei brocchi o quando si prende in mano un violino per la prima volta si fa piangere JesooBambyno. È la norma, deal with it.
Mancano l’esperienza, le conoscenze base sullo storytelling, manca la faccia da culo che rende consapevoli e la capacità di autocritica. Quella si impara col tempo a suon di stroncature ma ancor di più leggendo gente brava che ti fa dire “non son degno, non son degno”.

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Quante ce ne dovremo sorbire di copertine così?

Quindi pubblicare il libro di una sedicenne, peraltro nemmeno editato come si deve, significa mettere in libreria una schifezza. Punto. Venderà, eh, ci mancherebbe, ma rimarrà una schifezza. Se questo è accettabile agli occhi di un editore che punta al profitto e sogna di fare il bagno nel DANARO (cosa che comunque non accade, e la crisi del mondo editoriale parla chiaro), da lettrice la trovo un filino una presa per il culo.
Oh, capiamoci: il problema non è che si tratti di fanfiction riadattate. Si fa, può riuscire bene o male a seconda dei casi, ma di per sé non è niente di immorale. Il problema è che questi libri sono pessimi e che non hanno qualità che li salvino; per forza poi vende solo la merda, si abituano i palati a mangiar solo quella e tutto il resto è troppo “difficile” o troppo “sofisticato”.
Questo processo ha distorto anche il mondo della scrittura amatoriale. C’è ancora chi scrive solo per il piacere di far accoppiare quei due personaggi tanto fichi o per riempire i buchi lasciati dalla storia, ma in quanti mirano a emergere dall’oceano di Wattpad e fare il grande salto? Troppi. E tutti uguali.
Che poi basta guardare appena oltre l’orticello malconcio dell’editoria italiana per rendersi conto che c’è speranza. Che ci sarebbe speranza, se solo non fossimo in mano a giganti vecchi e zoppi e morenti che badano solo all’autoconservazione.
Qualche germoglio c’è, per fortuna. E non ha proprio la faccia di Harry Styles.

“Tanto è fantasy” – la magia

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Guarda, non ti conosco ma mi puzzi già di fantasy brutto.

Sono figlia di quell’ondata editoriale che, una decina di anni fa, venerava il fantasy come frontiera definitiva del “fare i big money coi libri”. Parimenti, sono anche figlia del successivo tracollo che si è tradotto in “il fantasy è invendibile”. Sorvolerò sui recenti e ben poco seri commenti da parte di microeditori che dovrebbero spiegare due cosucce ai loro social media manager.
Ho iniziato a scrivere puntando dritta al fantasy. A dirla tutta avrei iniziato con le fanfiction, ma quello è un altro discorso: quando avevo diciassette anni leggevo (brutti) fantasy che mi piacevano tantissimo ed ero fermamente convinta che quello fosse il non plus ultra dell’intrattenimento a forma di libro. A mia discolpa posso dire di aver sempre avuto ben chiaro che si trattava, appunto, di intrattenimento e non dei massimi sistemi (che confesso mi hanno sempre annoiata un po’) (sono superficiale e pacchiana) (e comunque i boriosi che snobbano l’intrattenimento tout court, loro sì, hanno rotto il cazzo).
Nei miei vecchi scritti (e letti) vedo un sacco di ingenuità e di tendenza a sottovalutare che invece il fantastico nel suo insieme è una faccenda serissima, con delle regole precise da seguire, che richiede disciplina ed esperienza per essere gestito in maniera decente. Non dico eclatante, mi basta che sia accettabile.
Perché insomma, il peggior sgarbo che si può fare a questo genere è rifugiarsi in quella che è la frequente spiegazione di plateali incongruenze: “Tanto è fantasy”.
Un paio di balle, “tanto è fantasy”. Se tu, generico autore che si è preso bene con Dragonlance e Il Signore degli Anelli (rigorosamente il film, che oh il libro sono un sacco di pagine e pure scritte piccole e tu hai il tunnel carpale a tener su un tomo del genere quindi no), decidi di far succedere cose improbabili senza degnarti di imbastire una spiegazione credibile, se metti su un universo che non ha delle regole ma in cui la magia è un giocattolone da usare a casaccio… ecco, generico autore, per cortesia, torna a giocare a Baldur’s Gate che viviamo tutti meglio. Tu compreso, perché quando inizierai a nutrire le tue velleità letterarie e a mandare il tuo cap(r)olavoro agli editori ti arriveranno stroncature senza precedenti e tu ci rimarrai male, magari dicendo “non vengo compreso!”. No, hai scritto una schifezza. Ci siamo passati tutti, tranquillo.
Non puoi preparare una torta senza conoscere la ricetta, ecco tutto.
Qui c’è un’interessante disamina – condivisibile o meno, ma valida – su quelli che sono alcuni punti importanti da tenere in considerazione quando ci si approccia a questo genere, ovvero cosa NON fare.
Volevo aggiungere un elemento assolutamente essenziale quando si tratta di fantasy: la magia. Fatela bene.
L’intero genere si riduce a questo. Hai una storia, hai dei personaggi che fanno cose, crescono (e questo è essenziale, perché non c’è fantasy senza “viaggio dell’eroe”, magari mascherato da qualcos’altro), e nel frattempo succedono cose incredibili. Cose che non si possono spiegare con la fisica o con qualsiasi altra disciplina scientifica.
Per farla breve: le cose impossibili spiegate con pseudoscienza e technobabble sono fantascienza, il soprannaturale magico è fantasy.
Da cosa si distingue un buon fantasy da uno mediocre? Dall’aderenza alle regole. E il primo che mi viene a dire che l’artista è tale perché trascende e infrange queste pastoie viene colpito ripetutamente con Stormbringer. Prima di infrangerle bisogna conoscerle e saperle applicare a menadito, le regole, altrimenti si è solo dei pigri mentecatti. Fine della storia.
Creare un universo significa dare forma a un caos di fantasia e ispirazione che, preso da solo, è interessante forse giusto per l’autore, che ci si crogiola nei momenti di noia. Se però si vuole puntare all’intrattenimento di un lettore… be’, le cose cambiano. Ordine e leggi servono per non confondere l’interlocutore e soprattutto per non far passare il “creatore” per un debosciato che fa cose a caso.
Vado a saccheggiare a piene mani dalle Regole di Sanderson (sì, quel Brandon Sanderson, quello che ha scritto un sacco di libri che mi dicono essere fichissimi ma la cui lunghezza mi scoraggia da anni) e in particolar modo dalla seconda: i limiti devono superare i vantaggi. O almeno dovrebbero, in quella che considero narrativa fantastica fatta bene. Per dire, nella Trilogia dei Lungavista di Robin Hobb, che mi sto godendo immensamente in questo periodo, esistono diverse forme di magia che forniscono soluzioni essenziali per il protagonista. Peccato che una sia vista peggio del Satanismo e causi una regressione allo stadio animale in chi la pratica, mentre l’altra venga appresa tramite enormi sofferenze e dia dipendenza quanto e più di una droga. Il sistema magico è tutto sommato semplice ma efficace. Altro esempio: in Harry Potter la magia fa svariate cose, ma ci vogliono anni di studio per imparare a praticarla e non può essere utilizzata sempre e comunque (Statuto di Segretezza e affini).
Ovviamente la regola è valida in generale; chiaro, se mi metto a scrivere una storia i cui protagonisti sono divinità potrei aver bisogno di paradigmi differenti, ma è importante tenerla presente per non fare gli sboroni senza cognizione di causa. Maggiori sono le implicazioni dell’uso della magia e più specifiche devono essere le regole che la controllano.
Per questo l’esclamazione “Tanto è fantasy!” mi fa salire la pressione arteriosa.

“The Shannara Chronicles” è la morte (per noia e imbarazzo)

the-shannara-chronicles-posterCome non nascondevo fin dagli albori del blog, non ho gusti raffinati.
Inutile girarci attorno, a me piacciono le cose divertenti, le esplosioni, le pacchianate. Rendermi felice è molto più semplice di quanto possa sembrare, davvero.
Essendo consapevole di questa mia forma mentis da ottenne che gioca coi lego mi sono approcciata a Shannara (“The Shannara Chronicles” per esteso) fregandomi le mani: il trailer era una bomba, Manu Bennett un tamarro pazzesco e la storia abbastanza scema da permettermi di staccare il cervello durante la visione.
Breve flashback: nutro un certo disprezzo per Terry Brooks. È stato uno dei primi autori fantasy che ho letto, giusto dopo Tolkien, ai tempi in cui mi gasavo per oggettive schifezze come la saga di Drizzt o Dragonlance. Il fatto che persino all’epoca e alla luce della mia crassa ignoranza in ambito fantasy mi sia sembrato una ciofeca la dice lunga: “La spada di Shannara” è risaputamente la copia carbone di Tolkien, c’è la spada che ti prende a male parole e i personaggi idioti.

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Ho letto la mia dose di libri discutibili. E me li sono goduti. Ciò non toglie che fossero orribili.

Non sono andata molto avanti con l’esplorazione di Brooks; “Le pietre magiche di Shannara” è lì sullo scaffale, ne ho lette forse cento pagine e ho capito che non era cosa. Ho rimosso praticamente tutto ciò che riguarda il libro, sono passati tanti anni e quindi posso dire di essermi approcciata alla serie TV con relativa oggettività. Quel tipo di oggettività che ti fa dire “ok, l’autore è un mentecatto ma potrebbe venir fuori qualcosa di carino”.
Ovviamente in tutto questo ho finito con l’ignorare l’enorme, luminoso warning che mi informava dell’imminente zozzeria che mi accingevo a guardare: MTV.
(Da quant’è che MTV non fa qualcosa di decente? Che va bene, io c’ho una certa età e i tempi di Daria e Celebrity Deathmatch sono lontani, ma ormai più che sedicenni gravide non vedo)

Con la mente fredda e una decina di giorni per elaborare il tutto posso affermarlo con certezza: Shannara è inguardabile.
Innanzitutto mi ha fatto lo stesso scherzone di quell’abominio del film di Dragonball. Trailer fico e bugiardo perché cuce insieme gli unici trenta secondi decenti dell’intera produzione. E già questo non lo posso perdonare.
Il cast è un immenso punto di domanda. Tralasciando Manu Bennett (su cui ho da dire) e John Rhys-Davies (che ho confuso per anni con Rhys-Meyers e no, non c’azzeccano), il resto dei numerosi attori sono stati scelti solo sulla base della manzitudine. Bellini, eh, tutti tra il caruccio e il “ma che fregna!”, però fine.
Non ce n’è uno, UNO che sappia recitare. Potrebbero, poverini, essere reduci da una seduta di devitalizzazione dal dentista e avere ancora i postumi dell’anestesia da tanto sono inespressivi. In realtà si somigliano anche un po’ tutti, ma forse questa è colpa mia che a un certo punto ho smesso di stare attenta e ho preso a sbadigliare.
Dicevamo di Manu Bennett: a me lui non dispiace. A chi potrebbe mai dispiacere un culturista neozelandese che fa sempre ruoli da badass? Sarebbe un po’ come odiare Dwayne Johnson. Dai. E poi ha fatto Crixus in quel gioiellino di Spartacus (gioiellino monco ma ci torneremo) e Azog, che è una delle poche cose salvabili dei film dello Hobbit. Certo, non c’entra assolutamente niente con Allanon, che viene ripetutamente descritto come alto, allampanato, cupo e incazzato col mondo. Qui oltre a essere un barattolo di muscoli il druido è un po’ amicone di tutti, superdisponibile e se glielo chiedi con gentilezza ti porta pure fuori la spazzatura. Il che è molto triste, considerando che davvero, Allanon è l’unico dettaglio che mi sia rimasto impresso in maniera positiva della produzione di Terry Brooks.
Sono una fangirl pure troppo attenta agli hint, quindi confesso di aver provato un briciolo di interesse per lui giusto quando ciccia fuori di fianco a Will collassato nella vasca da bagno. Mi aspettavo cose tra i due, ma poi mi sono ricordata che non siamo in una serie tv divertente o trasgressiva ma su MTV, quindi niente.

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Confidavo almeno in un limone. Sono rimasta delusa pure in questo.

Shannara non è un fantasy: è un teen drama spennellato di polvere di fata. Si capisce benissimo fin dall’inizio che l’interesse degli sceneggiatori non è mai stato quello di fare un prodotto che rinfocolasse l’interesse per il fantasy risorto con Game of Thrones. Piuttosto hanno messo in una stanza un gruppo di sociologi cinquantenni e gli hanno chiesto cosa piaccia ai regazzini.
Il risultato? Un tragicomico mix tra Hunger Games, Maze Runner e Bayside School. La scena iniziale – che nel libro è intrisa di misticismo, con l’albero che estende i propri rami a scegliere coloro che dovranno difenderlo – è una demenziale corsa bendati nel bosco con tanto di sgambetti e divise da runner. Ci stanno gli elfi in canotta che sono una delle cose più NO del mondo! E cinque minuti dopo c’è il ballo di fine anno pubblicità dello Jaegermeister bho, non ho capito, gli elfi vanno al baretto e sembra tanto il prom dell’high school, con la protagonista femminile tanto caruccia vestita da strappona in uno stile che non c’azzecca niente col resto del suo popolo.
La bruttezza della rappresentazione del popolo elfico si riflette perfettamente sulle espressioni “Ma chi me l’ha fatto fare” di re Eventine.

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“Regà, ma che siete seri? Cioè, davero?”

Sono questi i problemi della serie? Attori scarsi, costumi ridicoli e mood a cazzo di cane?
Ma magari!
Le prime due puntate, che oltre non vado perché devo fare cose più importanti tipo guardarmi i pori per sei ore di fila, sono palesemente state sceneggiate e montate da un branco di scimmie ubriache. Passaggi di scena fulminei e a singhiozzo che non riescono a defibrillare una lentezza nello svolgimento e una serie di dialoghi strazianti da tanto sono noiosi.
Eccolo, il vero, grande problema di Shannara: che due palle!
Non riesci a farmi affezionare ai personaggi, non riesci a farmi appassionare alla trama, ti limiti a un paio di scenografie carine e farcisci il resto di una CGI così brutta che fa rivalutare non dico neanche Hercules, ma addirittura Sinbad: caro showrunner, io te lo dico chiaramente che hai sbagliato mestiere.
Una serie tv può essere brutta ma lasciarsi guardare. Con tutto l’amore per Raimi, i suoi telefilm anni ’90 erano trash e spesso sconclusionati, ma erano deliziosi. Spartacus (diciamo le prime due stagioni, che poi mi si perde via) è girato in green screen da una mezza dozzina di omoni in mutande eppure è ben fatto.
Shannara no. È NOIOSO e io questo non posso perdonarlo. È noioso perché è sciatto, è noioso perché nessuno si è preoccupato di cucirgli addosso uno script degno di questo nome. Temo di sapere il perché: non si tratta di incapacità ma di scelte specifiche. La serie è stata pensata come prodotto per ragazzini e non vorrai mica propinare ai sedicenni qualcosa di troppo complicato, no? Quindi banalizzare, gettare esche a forma di estetica da distopico vecchio di cinque anni e aspettare che il target abbocchi attirato dai pettorali di Will o dal musetto caruccio di Amberlee.
Questo mi manda in bestia. Si può e si deve creare un prodotto per adolescenti fatto bene, anche se non è facile e occorre sbattersi. Ma pensa un po’ che strano, per far cose fighe bisogna impegnarsi! Non lo avrei mai detto!
In conclusione posso perdonare tantissime cose a una serie tv che parte con premesse non proprio incoraggianti, ma non la sciatteria e soprattutto non la noia. Ridatemi Legend of the Seeker, che era orrendo ma godibile!
O Shadowhunters (coming soon, tra l’altro), che è brutto da lacrime ma fa il giro e diventa divertente!
Ve ne prego!

Unpopular opinion: Tim Burton, adesso basta.

Unpopular opinion. L’altra faccia del guilty pleasure: se quest’ultimo è qualcosa che fa schifo a tutti (o che è di qualità oggettivamente scarsa) ma riesce a essere comunque deliziosamente divertente, esiste anche l’opposto.
Quel qualcosa che tutti amano, tutti elogiano, che fa emozionare le folle e ridà la vista ai ciechi e che invece ad alcuni riesce solo a far essiccare e rotolar via le metaforiche gonadi.
Ne ho parecchie, di unpopular opinion.
Questa forse è quella che mi scatenerà più rancore.

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Ho avuto pure io diciott’anni.
Ero improponibile. L’ho già scritto, mi atteggiavo un casino: capelli neri, riga in mezzo, un dito di eye liner sbavato (in questo non sono cambiata molto, mica ho imparato a mettermelo) e quell’orrenda maglia degli Immortal che chissà perché non riesco a buttare.
Che poi davvero, manco mi piaceva il black metal. Però l’estetica darkettona era meravigliosa, ed essendo io sempre stata troppo grezza per dedicarmi al goth coi suoi fronzoli, rose nere, pizzi e merletti optavo per qualcosa di più cazzuto.
Oltre all’aspetto estetico della faccenda c’erano pure i contenuti.
La musica era quel che era, ok. La letteratura? Ma sì, la Rice la rileggo ancora volentieri (fino a un certo punto, poi è diventata matta e si è dimenticata come si scrive), Bram Stoker è un must, Poe e Lovecraft sono dei patatini. Poteva andar peggio.
Il cinema?
Eh.
Un bel casino.
Non sono mai stata una grande appassionata di horror. Mi piace il gore, adoro lo splatter in stile Troma o Rodriguez, Del Toro è l’amore della mia vita e il goticume mi garba tuttora. Ma i film di paura? The Ring, L’Esorcista… no. Sono una cacasotto e poi mi tocca dormire con la lucina accesa per due settimane.
Cosa rimane?
Qualcosa che abbia un alone di mistero e ironia, un’estetica bizzarra, grottesca, macabra ma tenera.
Tim Burton.
L’uomo che da trent’anni rumina lo stesso film con lo stesso protagonista e lo vomita sugli schermi.
All’inizio, non lo nego, mi piaceva sul serio. “Edward mani di forbice” è straziante, “Beetlejuice” originale, “Il mistero di Sleepy Hollow” è divertente.
Però bom, fine. Già “Nightmare before Christmas” mi irritava un po’, colpa di quelle canzoncine moleste, ma ehi, piaceva a tutti, evidentemente non lo capivo.
“La sposa cadavere”? Vabbe’, ma era praticamente lo stesso film!
Da lì è stato un tracollo.
“Charlie e la fabbrica del cioccolato” l’ho preso come un’offesa personale alla bimbaValpur che sognava leggendo Dahl, “Alice in Wonderland” facciamo finta che non esista che è meglio. “Sweeney Todd”? Se odio i musical un motivo c’è.
Tim Burton, per dirla semplice, mi ha rotto le palle.dark-shadows
Ma basta, per dyo!

Lo abbiamo capito tutti, ti piace fare queste cosine colorate di nero e viola e con la gente pallida. Ti piacciono le occhiaie e le cose paurose che però sono anche carine.
Che due cojones. Tu, la tua ex moglie e GionniDepp.
Soprattutto GionniDepp, che fino ai Pirati del Caraibi mi piaceva pure e poi gli è rimasto Jack Sparrow incastrato tra i denti e non lo si tollera. Cresci, figlio mio, che ormai vai per i sessanta e sei poco credibile e anche un po’ creepy a voler fare l’idolo delle adolescenti.
(GionniDepp pre-piratesco era tanta roba, lo ammetto)
Momento sinestesia: Tim Burton mi fa lo stesso effetto delle caramelle al ribes nero. Tipo le Fruit Joy: sono dolciastre, legano i denti e mi fanno venire un po’ di nausea.
Mi sono sentita rispondere mille volte “Ma non capisci? Lui è eccentrico, è geniale, è così diverso!”.
No. È uguale a se stesso da un sacco di anni. Continua a propinarci la stessa sbobba – no, un attimo. Forse a volte ci prova anche a far qualcosa di diverso (“Big Eyes”, per esempio, che pure non mi ha detto granché), ma quando deve far cassa ripiega sempre sul darkettone simpaticone.
E GionniDepp.
Ora ho letto che avrebbe in mente un remake della Famiglia Addams. Ho ucciso per molto meno.
Per carità, capisco perché piaccia. Ha un marchio di fabbrica, qualcosa che i fan colgono all’istante, che cercano e apprezzano. Quello stesso qualcosa che mi fa fuggire a gambe levate e spendere i dieci euro di biglietto del cinema in ghiaia per un giardino zen in salotto piuttosto che darli a lui.
Mi verrebbe da pensare che sto invecchiando e quindi non vedo più la poesia di Burton, ma la verità è semplicemente che non so calcolare quanti anni siano passati da quando ha avuto l’ultima buona idea.
Quindi ora mi siederò qui e aspetterò la sassaiola dell’ingiuria. Per fortuna che non sono ‘mmeregana, perché se negli US ti azzardi a dire “Tim Burton è il tedio” iniziano a piovere accuse di non capirlo, di non sapere cosa significhi essere soli incompresi e Calimero, di essere freddi e aridi.
Bho. Io torno a guardarmi “Il labirinto del fauno”.
Che vivo più serena.

Libri belli di autori carogne: come smettere di amare un’opera

“Le nebbie di Avalon” era qualcosa in più che il mio libro preferito.
Era una consolazione, un luogo sicuro in cui rifugiarmi nei momenti difficili, uno sguardo nuovo e consapevole che la me stessa diciottenne imparava a gettare sul proprio essere donna.
Un libro perfetto? Un capolavoro? Dio, no. Ma lo amavo, e provavo un affetto sconfinato per Marion Zimmer Bradley che quel libro lo aveva creato.
Per questo scoprire la merda che si celava dietro e dentro l’autrice mi ha sconvolta così tanto.
Non stiamo parlando di droga o ubriachezza o generica testadiminchiaggine: la Bradley era una pedofila che abusava di sua figlia. Di una bambina.
Giuro, mi viene il vomito solo a leggere ciò che sto scrivendo; quando ho scoperto tutti questi retroscena ero sotto choc.
Quando si dice “mi è crollato un mito” forse non sempre ci si rende conto di quanto possa far male quando succede sul serio.
Adesso non riesco più a rileggere quelle pagine senza sentirmi sporca per non aver capito subito. La scena in cui una ragazzina (“little girl” nel testo originale) viene stuprata da un vecchio fabbro durante un rituale era già abbastanza cruda quando non sapevo (ma ehi, era solo una storia, ho letto di peggio ad opera di persone dalla reputazione immacolata. Ho scritto di peggio, figuriamoci!); rileggerla adesso, con la vittima che si agita e grida e non riesce a opporsi, pensare che la figlia dell’autrice può essersi trovata nella stessa situazione… bleah. Ho i brividi di disgusto ancora adesso.
Non ce la faccio. Non sono capace di scindere opera e autore, non sempre. Immagino sia umano, no?, avere dei limiti di tolleranza. E per me sono questi.
Posso ignorare che Hemingway fosse un alcolizzato e picchiasse la moglie perché comunque per me non è mai stato altro che uno scrittore, non certo un modello.
Posso sorvolare su Dick e la sua dipendenza da qualsiasi sostanza perché sticazzi, non l’ho mai messo su un piedistallo.
La Bradley invece sì, e quando è caduta ha fatto un bel botto. E no, non lo farò: non mi darò la colpa per averla ritenuta migliore di ciò che era. Lei era una cazzo di pedofila e io non lo sapevo: io sarò ingenua, lei faceva schifo. Punto.
Ammetto di invidiare chi, al contrario di me, non è così sensibile da sentirsi ferito da una simile scoperta e riesce ancora a godersi un libro che ha amato. Per me è troppo.
In qualche modo, poi, c’entra anche il fatto che la vittima del crimine della Bradley sia una bambina (anzi, più di una, a leggere i resoconti). Mi viene il vomito perché, come dicevo poco prima, questo è il mio limite di tolleranza all’orrore.
E infatti già qualche anno fa mi sentivo a disagio nel leggere le opere di Gary Jennings, con la costante, morbosa presenza di bambini e bambine vittime di violenza, visti dai protagonisti come oggetti sessuali.

Tutt’altro discorso è quando ami un autore. Lo stimi, lo abbracceresti anche se è morto, ti rileggi i suoi romanzi con cadenza periodica perché ti fanno stare proprio bene. E quell’autore ti tradisce scrivendo suddetto librodimerda.
Una roba che al confronto Efialte, Giuda, Bruto e Cassio sembrano dei bravi boy scout.
Mi è successo di recente; il libro(dimerda) in questione ho finito di leggerlo settimana scorsa e mi ci sono voluti dei giorni per riprendermi dallo schifo. Lo avrei lanciato via se non fosse stato un ebook.
Sto parlando di un’opera di Gary Jennings.
Il signor Jennings buonanima era uno scrittore e giornalista americano, uno che di storia ne sapeva parecchio e che scriveva dei romanzoni, appunto, storici. Siccome gli history nerds là fuori gli hanno rimproverato tante volte di non essere accuratissimo, preciso che forse bisognerebbe chiamarli romanzi (romanzi, non saggi!) storicamente attendibili e tagliare la testa al toro. Anche perché c’è sempre quel briciolo di sovrannaturale appena accennato che proprio storico non è ma che a me fa scodinzolare di gioia.
Questo signor Jennings è il responsabile ultimo della mia ossessione per gli aztechi, iniziata al liceo (volevo tantissimo fare quella ricerca di geografia sulla religione azteca, coi cuori strappati eccetera; invece ora so tutto su come gli inca si depilavano) e proseguita con un paio di viaggi in Messico. Il primo suo romanzo che abbia mai letto è, appunto, “L’Azteco” ed è fichissimo. Tanti dettagli colorati e cruenti, tanto dolore, guerra, amore, morte come se piovesse. Signor Jennings, è colpa tua se ho infilato gli aztechi nel fantasy, sappilo.
Ho in seguito letto anche “Il viaggiatore” (Marco Polo dice la sua sul Milione) e “Predatore” (che è brutto; non librodimerda, ma brutto).
Ma “L’Azteco” non è che il primo libro di una quadrilogia (sebbene almeno metà di essa sia stata pubblicata postuma)! Gioia e gaudio! Così, qualche settimana fa, dopo aver recuperato l’informazione dai recessi (soprattutto cessi) della memoria mi prendo l’ebook del secondo episodio. In inglese, questa volta.
“Aztec Autumn”, in italiano “L’Autunno dell’Azteco”  di buono ha solo la traduzione. Il resto è ripugnante.
Il protagonista è Tenamàxtli, giovanotto di buona famiglia in visita a Tenochtitlan con mamma e zio. In città assiste al rogo di un eretico indio, che altri non è che Mixtli, il protagonista del libro precedente nonché suo padre. Questo lo scopre quel giorno stesso e, di punto in bianco, senza sapere niente del suo genitore (che potrebbe anche essere un bastardo stupratore con la sifilide), decide di vendicarlo e di distruggere l’impero costruito dai conquistadores.
Solide motivazioni, proprio. Roba meditata.
L’intero romanzo si basa su questa premessa di merda. I personaggi sono di carta velina, Tenamàxtli è anche voce narrante e quindi l’unico su cui abbiamo un approfondimento di cui si farebbe anche a meno. È un cretino, in sostanza, che fa cose a caso, non è in grado di tenersi un amico o una compagna e si crede un figo.
Generalmente non viene mai mostrata alcuna affezione verso altri personaggi; in un caso è lui stesso a dirci “ah, era l’amore della mia vita!”, ma se non lo avesse spiegato lui non ce ne saremmo mica accorti. E comunque l’amore della sua vita muore dopo venti pagine. In realtà tutte le donne con cui fa sesso o muoiono (il 90%) oppure rimangono senza famiglia dopo aver patito una lunga e dolorosa prigionia (il restante 10%).
C’è un solo personaggio interessante ed è un po’ l’antagonista-che-proprio-antagonista-non-è. G’nda Ke è una donna molto bella, molto stronza e altrettanto spietata, portatrice di guerra e discordia. È una figura leggendaria, forse immortale, scacciata dal suo popolo chissà quanto tempo fa e presente dietro ogni battaglia. Il ritorno alla terra natia le è fatale, ma per tutto il romanzo è l’unica figura a sollevare questioni, a essere ambivalente e intrigante. Tenamàxtli non se la tromba ma lei muore lo stesso perché è stata troppo tempo con lui, secondo me.
Il romanzo racconta le gesta, appunto, di Tenamàxtli e di come prima cerchi di infiltrarsi nella società spagnola e poi si metta a provare a ribaltarla. Va a finire che lui muore accudito da quella che scopre essere sua figlia, avuta da una fugace relazione con una ragazzina mulatta dieci anni prima. Al di là del fatto che questa figlia salta fuori dal nulla e non aggiunge niente alla narrazione, il primo pensiero di Tenamàxtli è… sì. Esatto. Farci sesso.
Per fortuna si ferma (ma per caso, tipo che lo chiamano o deve andare in bagno o qualcosa di simile). E questo solleva il primo, enorme WTF del romanzo.

Dovete sapere che già ne “L’Azteco” il protagonista, Mixtli, è in odor di pedofilia. La cosa mi aveva lasciata perplessa già all’epoca, ma il tutto era trattato con distacco, senza soffermarcisi troppo e calando l’avvenimento nel contesto storico. Era, appunto, parte di una storia e come tale l’avevo presa. Ne “Il Viaggiatore” c’era qualcosa di analogo e mi ero detta che due casi non fanno statistica. Il terzo romanzo che ho letto, “Predatore”, ne parlava sì ma dal punto di vista della vittima, quindi era una variazione sensata che mi aveva tranquillizzata. Ero convinta fosse finita lì. Mi sbagliavo, perché ormai mi pare chiaro che a Jennings l’idea piaccia anche un po’ troppo se me la ritrovo in quattro romanzi su quattro che ho letto, senza mai mostrare vero disgusto ma presentandola come “normale all’epoca”. Non è troppo? Insomma, a voler essere malevola potrei pensare che Jennings sia un pederasta almeno nel cuore, ma siccome non sono malevola ma solo stronza penso che abbia messo ben poca fantasia nei propri scritti. Sfruttare così spesso lo stesso stratagemma (nel caso di “Aztec Autumn” la dinamica è praticamente identica a quella vista ne “Il Viaggiatore”: il protagonista adolescente svergina una mocciosa di undici/dodici anni convincendola che non c’è niente di male) sa di muffa. Mi ha proprio dato fastidio.

Il secondo punto dolente è che ne ho le palle piene di leggere in ogni dannato romanzo di Jennings una certa qual condanna verso l’omosessualità. Qui i traditori sono gay (giuro, tutti), è un continuo “ah, non è un cattivo ragazzo anche se è gay”; nel libro precedente, “L’Azteco”, i due stronzoni di turno sono gay. Ne “Il viaggiatore” l’omosessualità è una roba che apriti cielo, piuttosto vai a mangiare persone che è più tollerabile. E una volta, e due, e tre… anche questo mi ha fatto girare i maroni. Perché ok, se scrivi un romanzo storico posso accettare che nella testa e nelle azioni dei tuoi personaggi si rifletta una mentalità lontana da quella moderna, ma qui è davvero ridicolo! Si ricade nello stesso senso di sgradevolezza che ho provato per il fattore pedofilia. Quindi, Jennings, vergognati. Anche se sei già morto, vergognati.
Al di là di questi due dilemmi morali (che dilemmi non sono ma giganteschi VAFFANCULO) il libro è comunque pessimo. Rileggerò sicuramente i testi che mi erano piaciuti, anche alla luce del fastidio provocato da questo, perché Jennings sa essere davvero un genio quando si tratta di presentare una cultura straniera, ma non c’è davvero paragone con “L’Azteco”. Forse mi aspettavo troppo (capita spesso), forse il “fattore sequel” è stato dannoso, non lo so. Non so neanche se mi metterò a leggere gli ultimi due tomi della quadrilogia (“Il sangue dell’Azteco” e “La furia dell’Azteco”, postumi. Ci sarebbe anche “Fuoco Azteco” ma non ho trovato info a riguardo), l’abisso tra il primo e il secondo è così ampio da farmi temere ciò che accadrà in quelli successivi.
Questo libro non arriva al quattro. Sono delusa e disgustata.

Lascio qui un quesito, se a qualcuno interessa: dove finisce l’autore e dove inizia il romanzo? Avete mai avuto la sensazione che l’autore provasse un po’ troppo compiacimento in certe situazioni da lui raccontate?

Le domande rimangono, forse pure più di prima. Il tempo è passato e mi sono scoperta molto meno tollerante che in passato; se qualcosa in un romanzo mi mette a disagio di solito un motivo c’è. E non è che sia di stomaco delicato, anzi: mi piace il gore, adoro la violenza smaccata e superflua, mi diverto a veder soffrire i personaggi.
A patto però che non mi sorga il sospetto che lì dietro ci sia l’autore/autrice che sbava e si tocca mentre scrive. Che questo sospetto sia confermato o no, la sensazione di ewwww non se ne andrà.
Vorrei sapere come si fa a tornare indietro. A scindere in maniera serena opera e creatore.
Se qualcuno me lo può insegnare lo ringrazio.

 

Dov’eravamo rimasti – “Lo Hobbit” alla fine è molto peggio di quanto sembri

Nuovo appuntamento per la rubrica “Dov’eravamo rimasti”.
Che questa volta si potrebbe sottotitolare “Ridatemi i miei soldi”.
Illo tempore – un paio d’anni fa scarsi – recensivo così “La desolazione di Smaug”, secondo capitolo cinematografico di quella puttanata abissale della trilogia de “Lo Hobbit”.

Mi sono incaponita, ho pestato i piedini e ho ottenuto, ieri sera, di andare a vedere “Lo Hobbit-La desolazione di Smaug”. Perché non avevo voglia di aspettare oltre, di rischiare gli spoiler e perché sono fondamentalmente una bimba capricciosa.
L’Arcadia di Melzo è un cinema noto per avere lo schermo più grande d’Italia se non proprio d’Europa. E questo ha avuto un gran peso sul mio livello di godimento dello spettacolo.
Overall, il film mi è piaciuto molto più del primo. Non è perfetto e, mi duole dirlo, i difetti sono gli stessi di “Un viaggio inaspettato”; solo che sono meno marcati, meno goffi. Ci sono tanti pro e parecchi contro, ma i pro sono di più.
PRO:
-l’estetica. Santi numi, è un orgasmo visivo continuo. Io tendo a odiare dal profondo il 3D, mi annoia ed è spesso grossolano; in questo caso, complice anche lo schermo superfichissimo, è stata un’esperienza pazzesca. Gli occhialini erano un po’ scarichi, verso la fine, ma con due manate si assestavano bene. A parte una singola sequenza abbastanza awkward (l’inquadratura che si sofferma sui polpacci e sulle cosce atletiche di Thranduil che ok, ho apprezzato, ma non serviva davvero) non ho notato nulla che mi facesse storcere il naso. E non era così scontato, visto che Jackson ogni tanto piazza nei suoi film scene orride (ciao, Galadriel verdolina, e ciao, Pipino che sbabbia col Palantir, e ciao anche a te, Radagast con l’erba pipa). In più di un’occasione ho trattenuto il fiato e battuto le manine per l’esaltazione. Bilbo che spunta dagli alberi è meraviglioso nel senso più completo del termine, i panorami sempre mozzafiato anche se, per fortuna, meno “guida turistica della Nuova Zelanda” rispetto al primo film.
-La recitazione. Nulla da ridire, quasi nessuno dei personaggi è risultato imbarazzante e farraginoso. Con dei picchi di vera e propria poesia: Thorin (meno monolitico, tormentato, quasi sgradevole agli occhi dei suoi stessi compagni mentre l’avidità emerge da sotto quel mantello di pelliccia e maestà; il film è molto Thorincentrico rispetto al libro ma ehi, Richard Armitage è talmente bravo –ho detto bravo, non quarto di manzo, anche se- che non mi lamento), Bilbo (adorabile, coi suoi piccoli tic, le espressioni che avrei potuto avere io di fronte a certe uscite, la paura visibile e il coraggio nonostante tutto… Martin, tesoro, voglio abbracciarti forte ma mi manderesti affanculo), Thranduil (io gli elfi li odio, si sa, ma cazzo, questo è un re. Spregevole, freddo, strafottente, assurdamente altero ed elegante. E poi ha titillato il mio kink per le cicatrici e le mutilazioni, non me lo sarei mai aspettato), Dwalin e Balin (granitici entrambi, ben lontani dalle macchiette che erano stati nel primo episodio. In realtà un po’ tutti i nani sono più seri e credibili, ma gli altri restano sullo sfondo). Kudos a quasi tutti.
-SMAUG. Sto male, malissimo: Smaug è la perfezione fatta drago. Non solo, con mia grande gioia da criptozoologa, ha il numero giusto di arti per un vertebrato, ma è perfetto. Movimento fluidi e letali, mani mostruose ma quasi umane a sostenere le ali (afferra cose, gesticola), un muso che non è il solito da T-Rex anoressico ma che è una faccia, che fa smorfie ed è espressivo. E gli occhi! Quella scena iniziale in cui si apre la palpebra e la membrana nittitante (quella verticale) scorre sulla superficie gialla è stata un giggle continuo, per me. Nella sua agilità, comunque, si nota come sia ben consapevole di trovarsi in uno spazio chiuso e di come questo lo limiti. Vederlo emergere dal mare di oro fuso (che è stata un’idea davvero del cazzo, Thorin; e poi ti chiedi perché non sei ancora re) mi è piaciuto da morire.
-Tutta Erebor. La scenografia richiama abbastanza i fasti di Moria da far scattare il riconoscimento del tipo di architettura ma non li scimmiotta. È di più, più grande, più inutilmente alto, più intatto e triste. I cadaveri di nani mezzi mummificati mi hanno colpita, non solo come plot device (Thorin che non intende morire rintanato in una stanzetta) ma per il silenzio che ha fatto seguito alla loro scoperta. Gimli, quando entra nella tomba di Balin, grida di dolore. I nani della compagnia di Thorin hanno già vissuto –direttamente o quasi- quegli orrori. Non se ne stupiscono, purtroppo.
-I ragni. A me piacciono molto gli aracnidi, non ho mai avuto paura a maneggiarli e anzi mi affascina il modo in cui si muovono e in cui camminano sulla pelle. Ma quelli di Bosco Atro mi hanno messo i brividi! Tanti, troppi, non grasse tarantole ma mostri con zampe lunghe e bocche poco ragnesche ma davvero spaventose. Il modo in cui spawnavano giù dagli alberi, in cui ovunque guardassi non c’erano rami ma zampe… mamma mia. Che figata.
E ora passiamo ai contro. In effetti forse non sono di meno come numero, ma quasi tutti sono problemi che non mi hanno guastato la visione.
CONTRO:
-Tauriel. Lei è il quasi. Eh, lo so, io partivo orrendamente prevenuta. Un personaggio che non doveva esserci, ridondante e poco plausibile, la palese trasposizione cinematografica della Mary Sue della figlia di Jackson. La realtà si è rivelata ben peggio delle mie previsioni. Evangeline Lilly è una cagna maledetta (cit.) che fa il giusto paio con quell’altro ciocco di mogano che è Orlando Bloom. Già questo mi basta a rovinare il film, visto che ha più screentime di Gandalf. È onnipresente e tutti la amano e c’ha i poteri da guaritore (Elrond inarca un già arcuatissimo, nobile sopracciglio) ed è ribelle e Thranduil è gentile praticamente solo con lei. Raggiunge vette di pateticità imprevedibili, tipo quando strappa di mano la foglia di re Bofur, ripete ventordici volte “athelas” ferma sulla soglia e poi “sto per guarirlo”. Cioè, siamo ai livelli dell’infelice battuta “pare che sarò sconfitto” del re dei Goblin. È sempre fuori luogo, si vede che non ha nessunissima attinenza con la trama e l’intero subplot che la vede protagonista mi fa venire la gonorrea. E a tal proposito…
-Kili. Mi piange il cuore perché l’interpretazione in sé non è stata affatto malvagia, Aidan Turner sembra meno un cretino e il saluto di Thorin al nipote, con Fili che decide di restare con il fratellino nonostante sia l’erede al trono di Durin, è una scena commovente. Ma non serviva! Ammetto che vedere un bel giovanotto coi capelli lunghi che si agita, sudato e sconvolto, tra le lenzuola è uno spettacolo notevole, ma quella mezz’ora buona di film è proprio quello che allunga inutilmente il brodo. E poi la mezza love story con Tauriel mi fa vomitare bile. Ho anche il fortissimo timore che la Battaglia dei Cinque Eserciti comprenderà una scena nauseabonda in cui Kili muore tra le braccia di Tauriel. Continuo a sperare che sia lei a fare per prima e lontano dagli occhi di tutti una fine imbarazzante, tipo sommersa da una frana causata da uno scrollone dei suoi lunghi capelli, oppure che Fili e Kili muoiano vicini, cercando di prendersi la mano . Ma mi sa che no.
-Luca Ward. Mi ero illusa, guardando il trailer, che il doppiaggio non fosse male. Mi sono tristemente ricreduta. La voce di Smaug non è male in sè, è la cadenza, l’enfasi su certe parole che probabilmente in inglese e con i toni strappamutande di Benedict Cumberbatch aveva un effetto, in italiano invece è solo strano, stonato, con un ritmo incostante. L’intero doppiaggio, in realtà, mi è parso sotto il livello del primo film: Proietti ha meno brio e, ma forse è una mia impressione, la sua voce è un filo troppo alta rispetto alle altre, le voci sono più piatte… mah.
-Beorn. Nicholas Cage col trucco del Grinch. Non male a livello di caratterizzazione (non è un buffone o un ciccione bonaccione, è una bestia e mi piace; bellissime le api che svegliano Bilbo!) ma sul piano estetico l’ho trovato proprio pessimo.
-Le scene d’azione. Ecco, questo problema lo avevo notato anche nel primo episodio, che non avevo visto in 3D. Le scene più concitate sono sempre e comunque confuse, arruffate, mi fanno andare assieme la vista. Potrebbe essere un effetto della miopia ma comunque va a finire che mi rovina l’effetto. Che poi, vabbe’, i combattimenti sono tutti troppo lunghi e barocchi, con scene alla Pirati dei Caraibi di cui facevo anche a meno. Cioè, un po’ mi va anche bene (Bombur che combatte dal barile era carino, anche se non ho mica capito come mai prima suddetto barile era in frantumi e poi era di nuovo intero…) ma certi punti erano stiracchiati.
Insomma, non è un film perfetto. Anche perché, oltre ai pro e ai contro, ci sono anche i meh:
-gli orchi. Io li amo selvaggiamente, anche se Azog è un’aggiunta poco meno campata in aria di Tauriel. Sono brutali e scenografici (Azog ogni volta che arriva in scena si mette in posa plastica) (e comunque io lo shippo fortissimo con quell’altro orco, Bolg o come si chiama), ma si vede tantissimo che l’espressività non è la stessa che avevano nel Signore degli Anelli. Colpa della CGI, che è ottima ma che, almeno per me, non sostituisce degnamente le facce con le protesi.
-Sauron. Fichissimo l’effetto della sagoma nera nelle fiamme che diventa l’Occhio, sia come idea che come realizzazione, ma bho, non ce n’era bisogno. Ho già brontolato su quanto non mi piaccia l’aggiunta del tema della guerra in una storia che non ha nulla a che vedere con tutto questo, quindi non mi dilungherò.
-Bosco Atro. La foresta sembra troppo Fangorn, non ha carattere; si salva per la scena delle farfalle e per i ragni. Mi ha un po’ delusa la parte dei “palazzo” di Thranduil. Mi aspettavo un qualcosa di più simile a Lothlorien non come aspetto ma come “presentazione”. Non ha magia, non è in alcun modo particolare e non mi ha impressionata. Gli elfi ubriachi non si possono vedere, comunque.
-La famigliola di Bard. C’era davvero bisogno dei figli? Non fanno nulla di notevole e stanno sostanzialmente lì a occupare spazio. Continuo a non spiegarmi, poi, perché i responsabili del casting si ostinino a mettere Luke Evans e Orlando Bloom nello stesso film. Ok che il primo non è il già citato ciocco di mogano, ma si somigliano di brutto! L’orrido parruccone di Legolas però aiuta, in questo senso.
Quindi sì, in conclusione il film mi è piaciuto. Mi sono divertita un casino anche se almeno in tre occasioni ho bestemmiato, mi sono tolta gli occhiali e mi sono trattenuta dal lanciare le scarpe allo schermo. Ho anche ringhiato per una buona mezz’oretta.
E sono certa di essermelo goduto più del primo perché avevo aspettative più realistiche. Il prossimo film, comunque, vado a vederlo vestita da orco.

Passa un anno circa, esce il terzo film, “La battaglia delle cinque armate”.
Che già a voler essere pignoli la traduzione è una MERDA. Gli faceva schifo optare per un correttissimo e coerente con la traduzione italiana “eserciti”? Lo schifo, ahimè, è appena all’inizio.
Diciamo che questo terzo capitolo della trilogia sono andata a vederlo che era uscito da un bel po’, vagamente nauseata e con poco entusiasmo. In sostanza mi aspettavo una merda, ma non una merda così grave.
Facendo un po’ il punto della situazione, anche quelli che avevo definito “pro” sono venuti a mancare. A livello grafico mi è venuto il mal d’auto: troppa CGI brutta, ma brutta al punto che sembrava di stare nell’intro di un videogioco del primi anni Duemila. Schiere e schiere di elfi tutti uguali, con le faccine un po’ sgranate e nessun lineamento reale, effetti pacchiani, eccessivi e Legolas.
Legolas che già aveva rotto il cazzo a fare snowboard sullo scudo al Fosso di Helm, ma qui sfida direttamente la gravità senza neanche provare a dare un senso al tutto.
L’insieme è pupazzoso, davvero poco elegante se confrontato con le centinaia di comparse reali schierate davanti a Minas Tirith o alla delegazione di Loth Lorien che ok, era marziale, era uniforme ma si vedeva che erano persone diverse e non uno stampino ripetuto a oltranza.
Due ore abbondanti di gente che si mena e neanche mezza goccia di sangue. I figli di Bard che mannaggialclero non sono morti.
Alfrid. Non ho capito perché la gente continuasse a fidarsi di lui. Con tutto l’amore per Ryan Gage (ed è tantissimo amore) ogni volta che mi compariva sullo schermo mi partiva uno “ggggggnnnnn” di puro tedio.
La morte di Fili e Kili, che poteva essere un momento di assoluto strazio (ammetto che la dipartita di Thorin non è stata malaccio, ma il merito è di Richard Armitage e Martin Freema, non di quel cialtrone di Jackson) e invece… e invece TAURIEL.
Lo so che sono monotona, ma qui si raggiungono delle vette di lirismo assoluto.
“COS’E’ FA MALE LEVAMELO”.
No, minchiona. A te solo calci nelle gengive. Che dovevi essere quella buona e caritatevole e invece in mezzo agli sfollati di Pontelagolungo l’unica cosa che sai fare è scuotere le chiome, far venire il durello a Legolas e spogliarti Kili con gli occhi. Non preoccuparti della gente che muore tutt’attorno a te, figurati, che quella storia de “è anche la nostra guerra” vale solo quando vuoi un po’ di sano sesso interraziale.

Cosa si salva, nel complesso?
Il trash.
Nel mare magnum di pura merda che è il film persino il pacchianissimo intermezzo con il Bianco Consiglio, in cui Galadriel torna a fare l’imitazione verdognola di Samara, risulta divertente. Assurdo, fuori luogo, scandaloso ma divertente.
E poi si salvano quelle cosucce da fangirl che vuole disperatamente una sitcom su Bard e Thranduil coppietta isterica.
Però basta. Insomma, per tanto così me ne stavo a casa a riguardarmi le puntate di Spartacus.

Sono passati mesi. “Lo Hobbit” mi è stato propinato in loop su Sky, alternato alla trilogia del Signore degli Anelli con conseguente impietoso confronto.
E allora perché rosico ancora così tanto? Basta, è finita, la trilogia nuova è abbastanza diffusamente considerata un flop e Jackson non potrà più mettere le mani su alcunché di Tolkien.
Eppure io rosico, sì. Perché mi aspettavo grandi cose, perché quando uscì LotR ero giovane e neanche remotamente infoiata come adesso. Volevo rivivere quelle emozioni, amplificate da anni di fangirlismo senza scrupoli, e invece niente.
Ho provato ad aggrapparmi a quanto c’era di buono ma non è bastato, quindi mi tengo le pive nel sacco.
Anche perché non mi hanno fatto vestire da orco per l’ultimo film.
Sono molto offesa.

Tauriel puzza.

Storie di vita vissuta: #EhLuca

La conoscete tutti, la vicenda di #EhLuca. Non mentite.
E se davvero non la conoscete fatevi una cultura. Un italico caso di ossessione evidente possessione demoniaca (leggete tutte le puntate, mi raccomando). Una roba che in confronto Annie Wilkes è la discreta, quasi indifferente vicina di pianerottolo.

Che poi uno dice “eeeeh dai, sono esagerazioni, il fenomeno mediatico, i social, lo scappellamento a destra”.
ENNO’, dico io. Perché ci sono passata nei panni di innocente e sconvolta testimone esterna, ed è giusto che anche noi vittime facciamo sentire la nostra voce.
Ovviamente elimino i nomi, che tanto non servono a niente.

Corre l’anno Duemilaepochi; la giovane Valpur è una fresca studentessa al secondo anno di Scienze Biologiche e al primo da fuori sede. Su ciò che accadde alla Valpur matricola pendolare, sballottata dalle cinque di mattina alle otto di sera su treni fetenti, poco è noto. Dicono che prima fosse una persona normale. Dicono.
Comunque, codesta giovane Valpur cede al logorio della vita moderna e, novella ragazza della via Gluck, lascia il paesello per andare in città. Suddetta città è la fetida Milano e l’appartamento – un insospettabilmente distinto quadrilocale in centro – è frequentato da una fauna variopinta.
Tra cui spicca Lei. La Coinquilina Scema. Possiamo sorvolare su chi costei fosse, giacché in quest’appellativo si riassume il suo intero essere.
La giovane Valpur (da qui gV), dopo i primi mesi a struggersi sulla schiscetta della mamma e a bestemmiare contro il traffico meneghino, prende il ritmo e inizia beatamente a farsi i cazzi propri.
La Scema, nel mentre, cambia fidanzati con la stessa frequenza della biancheria intima e, come principale attività, piange. Di notte. Nella camera doppia che condivide con gV.
GV all’inizio si prende male: povera, piccola campagnola dal cuore non ancora avvelenato dal pm10 milanese, svariate volte si desta nella quiete notturna per confortare la coinquilina lamentante.
Svariate… vabbe’, una. Alla seconda già gV suonava scoglionata. Dalla terza in poi il pianto è stato ignorato.
Giunge l’inverno e con esso Capodanno.
E con Capodanno giunge anche l’ennesimo cuore infranto per la Coinquilina Scema. Prima di uscire a far baldoria, gV la scorge in cucina, avvolta in una soffice trapunta e con gli occhi color rubino, che singhiozza sull’amato bene che l’ha scaricata in quanto piaga sociale.
Ma la Coinquilina, oltre che Scema, è anche agguerrita: giammai accetterà il rifiuto dell’Uomo della Sua Vita n° 29 (da qui n°29)!
Il piano è astuto:
-andare sotto casa del n°29 e scrivere “Ti Amo” coi lumini da morto;
-istoriare uno dei lenzuoli di casa con la scritta a bomboletta rossa “N°29 TORNA DA ME”. La procedura viene messa in atto in cortile; gV si presta all’opera ma si piazza sotto vento e patisce;
-stendere suddetto lenzuolo su un ponte autostradale proprio dove n°29 dovrà passare, accompagnato dalla Coinquilina Scema (n°29, tutto sommato, ne prova pena e si offre di scortarla a una festa e riportarla a casa).
Non può fallire!
E fu sera, e fu mattina (molto presto). GV, ubriaca come una scarpa, crolla a letto alle prime luci dell’alba, come è consuetudine il primo dell’anno. Invecchiando, gV è diventata più saggia e sfancula tutti i progetti capodanniferi per svernare in tranquillità.
Intorno alle sette del mattino la camera da letto si intride del fetore acido dell’alcol vomitato. GV si desta e, dopo un primo istante di lecita confusione, capisce di non esserne la cagione. Inforca gli occhiali, ammicca, si disimpasta la bocca e nota la Coinquilina Scema che barcolla sulla soglia.
“Ho preso una scatola intera di Farmaco Ignoto”.
E fu panico.
A quanto pare lo striscione non ha sortito l’effetto desiderato e n°29 è rimasto granitico sulle sue posizioni: no, Coinquilina, non ne vuole proprio più sapere. E Coinquilina, già provata dai brindisi, in un momento di sclero afferra il volante e lo strattona cercando di cagionare incidenti. Fortunatamente fallisce.
La giovane Valpur, con gli strascichi della sbornia che la prendono a cazzotti e una sensuale camicia da notte muccata (però mica muccata bianca e nera, eh, è fluorescente. Ce l’ho ancora), rotola giù dal letto e si sforza di pensare con agilità.
Ok. Calma. Occorre ragionare: cosa fare? Farmaco Ignoto potrebbe essere uno psicofarmaco. Una benzodiazepina. E se una persona si imbottisce di alcol e benzodiazepine cosa bisogna fare?
Immaginatevi, nella testa della povera gV, scorrere vent’anni di informazioni, per lo più sotto forma di film e cartoni animati.
Eureka! Non deve addormentarsi!
Quindi… be’, semplice, no? Basta gettarle un bicchiere d’acqua in testa e poi metterla sul balcone a prendere aria.
Ma il balcone è al quinto piano. La giovane, disperata Valpur se ne rende conto solo qualche minuto più tardi, al telefono col 118.
“Arriviamo subito. Come sta la paziente?”
“Eh, bho, è sul balcone”.
“… la tiri via di lì. Subito”.
Ecco. Meglio.
Per fortuna la Coinquilina non sembra aver fatto molto, a parte sbavare, singhiozzare e accasciarsi a terra. Meglio lì che sul marciapiede, dai.
(La qui presente Valpur si prende ancora a cazzotti ogni volta che ci pensa. La Coinquilina sarà stata Scema, ma io lo sono di più)
Giunge il 118. GV saluta i paramedici con un pianto di sollievo che probabilmente fa passare lei per quella che ha bisogno di assistenza.
“Si calmi”
“MI SALVI”
“Si calmi che la sua coinquilina non sta morendo. Cos’ha preso?”
“Una scatola intera di Farmaco Ignoto!”
“Ma è sicura?”
“In questo momento non sono sicura neanche di avere i piedi, le pare?”
Paramedico va quindi a controllare in bagno.
Salta fuori che Farmaco Ignoto è sostanzialmente tachipirina. E che Coinquilina Scema ne ha prese due pastiglie. La dose consigliata, tra l’altro.
La giovane Valpur si sente un filino pirla. Ma ino ino.
Coinquilina Scema viene portata via dal 118. GV no, e un po’ le spiace.
Lavanda gastrica e passa la paura.

Coinquilina Scema, negli anni, è andata avanti con la sua vita. Una vita di cui la giovane Valpur (che nel frattempo tanto giovane più non è) è felicemente ignara.

E secondo me pure n°29.

L'uomo che non c'era

Erin E. Keller

Firstime in Boston

Pensieri disgiunti in universi congiunti.

Café Révolution

Francesca Ed Cappelli

shinersupernova

reading is cool

the Black Rabbit Hole

costume creations

I racconti di Riccardo Bianco

Non arrenderti... Un giorno sarai Re

Le piume di Fenice

Tutto può esser oggetto di discussione, se ben ragionato.

Miss Brownies

Racconti&Ricette

Axa Lydia Vallotto

Un giorno dominerò la galassia. Nel frattempo scrivo.

Con amore e squallore

Everything is geek and nothing hurts

Galassia Cartacea

Everything is geek and nothing hurts

Fastidious Notes

on Morbid Fanfiction

wwayne

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(di)vagare tra mondi d'inchiostro