“Il puzzle di Dio” è un sì


Il puzzle di Dio” è un romanzo di Laura Costantini e Loredana Falcone, quattro mani e due teste che scrivono assieme (e che per me rimangono un mistero: io già faccio fatica a mettere d’accordo me stessa col mio cervello quando si tratta di scrivere. Al tempo stesso però le invidio, perché dev’essere davvero bello condividere la creatività).
Il puzzle di Dio, senza le virgolette, è qualcos’altro, l’anima stessa della storia. Un manufatto che risale a un tempo ancora più antico dell’uomo e su cui pende l’enigma di Ippolito Desideri, missionario gesuita di stanza sull’Himalaya nel ‘700. Le 348 tessere del puzzle sono legate a un demone misterioso, mai morto e non ancora nato.
Dietro al mistero si affaccenderanno i romanissimi maggiore Landi (mia cotta a partire dalla prima comparsa sulle pagine) e colonnello Demedici; la cerca, però, non si limita all’Italia, ma si snoda fino al Nepal e al Marocco, dove saranno due donne ad aiutarli a districare l’enigma. Thriller, giallo e con un pizzico di soprannaturale: un buon cocktail.

“Il puzzle di Dio” (questa volta con le virgolette) sembra un film d’azione. Il ritmo è serrato, incalzante e perfettamente adatto all’atmosfera di tensione e inquietudine che permea il romanzo. Tra gli aspetti migliori della narrazione rientra, secondo me, l’agio con cui la trama e i personaggi scivolano tra un mondo e l’altro: Demedici e Landi sono due “eroi” plausibili. Riescono a essere al tempo stesso hollywoodiani senza scimmiottare gli US e italiani senza sembrare una copia imbarazzante di un qualche personaggio uscito da “Carabinieri”. E questo non è un pregio da poco, perché è facile scegliere la via più comoda e ambientare le proprie storie altrove (mea culpa, lo faccio sempre anche io).
Tutte le ambientazioni sono vivide e dettagliate, anche se il Nepal spicca per colori e per l’amore che è stato travasato nella sua descrizione. E non penso proprio di essermelo sognato, questo sguardo particolarmente affettuoso nei suoi confronti.
Un plauso ai personaggi femminili: tanto la sacerdotessa Sumira Naral (la sua comparsa in scena mi ha scossa parecchio) quanto, da tutt’altra parte del globo, Nesayem Imtithal, avvocato e genio, sono reali, indipendenti ed essenziali. Non “forti”, un po’ perché il termine non vuol dire niente e un po’ perché è talmente abusato da farmi girare le ovaie. Donne che cambiano la storia e che tengono la testa alta. Donne come vorrei essere io. Le ho preferite ai personaggi maschili: per quanto mi sia affezionata ai due protagonisti la dicotomia netta tra buoni e cattivi ha privato, per esempio, Mister Liberty di spessore sufficiente per farmi venire il dubbio che potesse avere ragione lui.
Anche il tema dell’omosessualità è trattato con… bah, chiamiamola “delicatezza”, ma è qualcosa in più: c’è uno sguardo consapevole, mai morboso e tanto meno pietistico, su un aspetto dell’esistenza che è al tempo stesso normale e difficile.
E in tutto questo, sopra e dentro, c’è una storia avvincente che non lascia tregua.
Ecco, forse un po’ troppa adrenalina ha affrettato il finale, così rocambolesco e concitato da farmi sperare in qualche pagina in più per godermi gli ultimi capitoli.
“Il puzzle di Dio” è stato il primo libro iniziato nel 2015 e confesso di averlo finito in pochi giorni con gran soddisfazione. È diverso da qualsiasi altra storia abbia letto fino ad ora, e non è cosa da poco.
Approvato. E adesso datemi il prossimo, su.

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